Menù e psiche. Il segreto di un menù vincente 

Menù e psiche. Il segreto di un menù vincente 

Il neuromarketing, applicato alla struttura e presentazione del menù, può influenzare in modo determinante le scelte dei consumatori, migliorando la redditività del locale

Questione di gusti, certo, ma anche di emozioni e di psicologia. È vero che in un ristorante a fare la differenza è la cucina, tuttavia la scelta dei piatti può incidere in maniera determinante sull’esperienza a tavola in un locale. E incide anche – in certi casi, soprattutto – per il ristoratore. Si chiama «neuromarketing», ovvero l’applicazione delle conoscenze neuroscientifiche alla strategia di vendita, allo scopo di analizzare ciò che accade inconsapevolmente nella mente del consumatore e che influisce sulle sue decisioni di acquisto. Lo strumento più utilizzato, nella fattispecie, è il menù, vero e proprio biglietto da visita di ogni ristorante. È da come vengono proposte queste pagine che si gioca l’indice di profittabilità di un locale. Tutto sta nel sapere come utilizzarlo. A descrivere la pratica del neuromarketing applicata al menù ci ha pensato Roberto Pone, dell’ufficio Marketing, Innovazione e Internazionalizzazione di Confcommercio, con un test

Roberto Pone

pubblicato su Le Bussole, il sito di Confcommercio che offre spunti, notizie e consigli agli imprenditori. «Emotività e psicologia contano nelle scelte dei consumatori più di quanto si pensi – dice Roberto Pone –. E questo accade al ristorante come altrove. Parliamo di psicologia comportamentale, molto diffusa anche all’estero: il valore della prima impressione, l’attenzione attirata rispetto ad alcune cose piuttosto che ad altre, il significato dei colori, oppure la relazione empatica con l’addetto alla vendita, sono tutti elementi fondamentali che spesso guidano le nostre scelte. L’economia comportamentale non è mai da intendersi in senso manipolativo, la qualità resta la prerogativa essenziale, tuttavia ci sono elementi che possono accompagnarci nelle scelte e il menù è uno di questi, insieme all’atmosfera, all’illuminazione e all’eventuale sottofondo musicale». Vediamo dunque quali sono gli aspetti che Roberto Pone ha analizzato nel suo test.

La «consistenza» della carta

«Avere un menù con meno di 4 facciate è un’ottima scelta in quanto, entro tale dimensione, è più agevole la progettazione delle azioni per migliorarne l’efficacia comunicativa e indirizzare le preferenze della clientela. Dalle 4 facciate in poi progettazione e controllo diventano più complessi e la dimensione ostacola la capacità di “suggerire” le scelte dei clienti. Tre facciate sono utili laddove si voglia trasferire l’idea di un’esperienza culinaria completa, comunicare ampia varietà e avere spazio per un’accattivante descrizione delle pietanze. La migliore configurazione però, è quella a 2 facciate che unisce l’idea di un’esperienza culinaria completa alla semplicità di lettura. Una sola pagina, invece, porta il cliente a contenere la spesa per via dell’associazione con qualcosa di veloce».

L’importanza tattile

Il tatto è un senso da non sottovalutare, meglio dunque se il menù viene stampato su carta naturale e con un po’ di spessore. «Se poi ha anche un certo peso, garantito da un porta-menù, viene abbinato all’idea di un locale più esclusivo – spiega Roberto Pone –. Ben diverso, invece, in termini di percezione è un menù su un semplice foglio di carta, magari inserito in una bustina di plastica che, col tempo, potrebbe sporcarsi oppure opacizzarsi».

La sequenza dei piatti

L’ordine è un altro aspetto importante: un buon menù deve proporre le pietanze in base a popolarità e margine. «Se non è così c’è un problema – scrive Roberto Pone –. Il punto di partenza nella progettazione del menù è conoscere, per ogni pietanza, il prezzo di vendita, il food cost e, quindi, il margine dato dalla differenza tra i due. Va poi monitorata la popolarità della pietanza, che è data dalle vendite in un determinato periodo. Con questi dati è possibile mettere a confronto le pietanze per gli antipasti, per i primi e così via ottenendo un’immediata indicazione di cosa è preferibile o meno vendere». Le pietanze molto popolari e dall’alto margine devono quindi essere associate a posizioni molto visibili, il personale deve essere preparato nel proporre questi piatti e magari, assieme allo chef, si può ipotizzare una loro estensione proponendo altre versioni con qualche diversità negli ingredienti, nella preparazione e nel prezzo. «Le pietanze che garantiscono un alto margine, ma sono poco popolari potrebbero avere bisogno di un cambio di nome per aumentarne l’appetibilità, una descrizione evocativa che faccia venir voglia di provarle, un ancoraggio visivo (grassetto, sottolineatura o altro elemento grafico) per accrescerne la visibilità, un intervento per modificarne la preparazione o persino una leggera riduzione di prezzo». Le pietanze popolari ma dal ridotto margine potrebbero essere spostate in posizioni meno pregiate in termini di visibilità o essere ripensate per ridurne il food cost o aumentarne il prezzo, infine «le pietanze poco popolari e dal ridotto margine potrebbero essere rese più profittevoli aumentandone il prezzo di vendita o riducendone il food cost». Ma c’è anche l’opzione di sostituirle con altre. 

L’effetto isolamento

Un modo per attirare l’attenzione su alcuni piatti è quello di utilizzare un riquadro, uno sfondo diverso, grassetti, colori, sottolineature, icone o altri elementi grafici. «In questo caso si parla di “effetto isolamento” – dice ancora Roberto Pone –, altro elemento che aumenta la probabilità della pietanza di essere considerata. È un’azione tanto semplice quanto efficace dal momento che, se l’attenzione del cliente non si posa su un determinato piatto, di certo non verrà acquistato. Se poi si considera che il cliente dedica al menù circa 180 secondi, è evidente l’importanza, per i piatti, di farsi notare velocemente». Attenzione però a non esagerare in quanto troppi stimoli visivi generano confusione risultando, pertanto, meno efficaci. Una buona regola è quella di limitarsi a evidenziare un solo elemento per categoria. Far risaltare le specialità preferite dal pubblico, che quindi diviene testimone della loro bontà, è utile perché fa leva sulla “riprova sociale” (quel che piace a molti, guida il nostro comportamento) e può indirizzare nella scelta, soprattutto un cliente indeciso. «Una catena di ristoranti a Pechino – racconta Pone – ha registrato un incremento tra il 13% e il 20% delle vendite dei prodotti segnalati come “preferiti”. In una birreria di Londra, invece, una birra proposta come la più venduta della settimana, ha fatto registrare un aumento di vendite di 2,5 volte rispetto alla settimana precedente».

Il numero di portate

Di  quante portate dev’essere composta una carta? Il tema è sempre attuale: «Il numero ideale è di 7 portate massimo per gli antipasti, 10 per i piatti principali e 7 dessert – è l’opinione di Roberto Pone –. Un numero di piatti contenuto comunica qualità dell’offerta e rende agevole la scelta del cliente. Un numero più elevato di proposte rischia di essere associato all’idea di poca freschezza e, per via del “paradosso della scelta” (troppe opzioni fiaccano la decisione) il cliente, a fronte di un numero eccessivo di possibilità, opta per quella più familiare che, però, non è detto sia la più redditizia per il ristorante».

La narrazione dei piatti

Giusto incuriosire i clienti rispetto a ciò che troveranno nel piatto. Inserire una descrizione del prodotto ne aumenta il valore percepito: «Il racconto, se non si limita all’indicazione degli ingredienti, deve essere evocativo, appetitoso, con qualche particolare in grado di incuriosire il cliente e, comunque, breve», avverte Pone, che cita un altro esempio: «Un’interessante sperimentazione in una caffetteria ha utilizzato diverse etichette per accompagnare i prodotti: una articolata e “aulica”, l’altra standard con il solo nome. I prodotti descritti in maniera aulica sono stati scelti nel 27% dei casi più degli altri (la lettura del testo contribuisce alla proverbiale acquolina, quanto mai efficace in termini persuasivi), sono stati valutati migliori (grazie all’aspettativa di qualcosa di buono generata prima della degustazione per il tramite del testo) e, addirittura, è stata associata una migliore qualità all’intero negozio. Detto che è utile evidenziare, nelle descrizioni delle pietanze, la connessione con elementi della tradizione e luoghi con un forte valore simbolico positivo, come prodotti certificati e territori dalle tipicità ed eccellenze enogastronomiche, serve fare attenzione sull’utilizzo delle fotografie: «Sebbene l’uso di un’immagine può aumentare le vendite anche del 30%, l’effetto positivo si annulla quando le foto sono numerose – avverte Roberto Pone –. In linea generale, in un ristorante di fascia medio-alta e con una clientela prevalentemente italiana le foto delle pietanze nel menù consultato in sala o all’ingresso andrebbero evitate. Queste, infatti, in Italia vengono associate a menù turistici o di modesta qualità. C’è anche un secondo effetto negativo nell’uso delle fotografie all’interno dei menù. Vedere in anteprima il piatto annulla il piacevole effetto sorpresa al suo arrivo, oltre al rischio che eventuali differenze tra il piatto in tavola e la foto, potrebbero lasciare deluso il cliente».

L’indicazione dei prezzi

E quale “strategia” utilizzare per comunicare i prezzi? «Disporli in maniera non allineata, pur mantenendoli facilmente leggibili, evita che l’attenzione si focalizzi su di essi invece che sulla descrizione dei piatti – dice ancora Pone –. È utile, quindi, riportare il prezzo di fianco a ogni nome, sfruttando le diverse lunghezze dei testi per ottenere il voluto disallineamento ed evitare così che il confronto tra le proposte parta dal prezzo. Uno studio realizzato dalla Cornell University sulle modalità tipiche di presentazione dei prezzi nei menù dei ristoranti ha evidenziato come l’indicazione di prezzi in cifre e senza decimali, né simboli relativi alla valuta (per esempio “19” anziché “19,00 euro”), abbiano contribuito ad aumentare la spesa dei clienti. In tal modo i prezzi, poiché il cervello impiegherebbe meno tempo a leggerli e a elaborare l’informazione, possono essere percepiti più bassi. Inoltre si distanzia, a livello percettivo, il consumatore dalla tangibilità del denaro». Da qualche anno nei ristoranti si sta affermando l’abitudine del menù digitale. Queste raccomandazioni valgono comunque? «È in atto una transizione che la pandemia ha accelerato – osserva Ponte –. Per incontrare un pubblico sempre più ampio, avere entrambi i menù potrebbe essere una buona soluzione. Ma non è detto che quello digitale non debba seguire le stesse regole del menù cartaceo in fatto di chiarezza, esposizione di prezzi, oppure mettere in risalto alcune proposte rispetto ad altre. Il menù digitale è più flessibile e questo è un punto di vantaggio». Tanto lavoro, dunque, dietro a un “semplice» menù”: «La consapevolezza dei ristoratori rispetto a questi temi sta crescendo – conclude Pone –, anche se c’è ancora un ampio margine di miglioramento. Capita spesso, infatti, di incontrare menu inadeguati che non valorizzano la proposta. Detto questo, si tende ancora a sottovalutare il neuromarketing, perché non se ne percepiscono le potenzialità in termini di vendita».