Storie di paste ripiene e di abbagli

Storie di paste ripiene e di abbagli

 

Cannelloni-ricotta-e-spinaci_7Se non già un’irrefutabile patente di genitura del casoncello, la tradizione gastronomica bresciana può perlomeno vantare un concorso di paternità nella procreazione di un altro prototipo delle paste ripiene. Corre infatti il 1855 quando il milanese Giuseppe Sorbiatti – cuciniere di fama nazionale dai saldi addentellati professionali alle falde del Cidneo – dà alle stampe la prima edizione de “La gastronomia moderna”. Tra le ricette dell’enciclopedica raccolta, tutte pomposamente declinate in francese secondo la moda del tempo, spicca quella dei “Cannellons à la bressane”. Si tratta di cannoncelli dalla sfoglia ottenuta con un procedimento affatto singolare: si inizia mettendo al fuoco un paiolo con un quinto della farina e poca acqua per ottenere una polentina soda. Questa va quindi impastata a freddo con il resto della semola, con l’aggiunta di qualche tuorlo, per ottenere una massa piuttosto consistente. Stesane una lamina sottile, la si farcisce con un composto di foglie di verza o cime di rapa sbollentate e triturate, quindi saltate con burro e cipolla e legate con cacio, pangrattato e uova. Arrotolati a forma di sigaro, gli involtini vanno infine lessati in acqua bollente, con la rifinitura di qualche cucchiaiata di burro nocciola e l’immancabile spolverata di formaggio lodigiano.

Questa è, a mia notizia, la più antica codificazione in letteratura gastronomica del cannellone a guisa di pasta ripiena. Ai buongustai dell’epoca, ormai tediati dal formalismo allogeno della cucina d’oltralpe, Sorbiatti si affretta a giurare che “questa minestra è del tutto campagnuola”. In realtà i panni posticci da trattore del contado non riescono a dissimulare il gastronomo borghese che cerca di mascherarvisi. Nel suo monumentale Grand dictionaire de cuisine, l’eclettico Alexandre Dumas ragguaglia invero che i cannellons sono una preparazione di pasticceria – di gran lunga la più elitaria tra le branche della cucina – consistente in un piccolo cilindro di pasta sfoglia imbottito di composta di frutta. Il cuoco meneghino è verosimilmente il primo ad essere illuminato dall’intuizione di trasfigurare lo zuccheroso cannolo in un involucro di lasagna. Il ripieno – quello invece sì – è senza dubbio di genuina marca rustica. Stando ai glossari vernacolari del Melchiori e del Tiraboschi, corrisponde infatti alla farcia dei casoncelli come la si preparava nell’ottocento: a base di erbette, cacio ed uova.

Per qualche decennio il nuovo formato di pasta resta nell’ombra, tant’è che alla fine del XIX secolo Pellegrino Artusi, nei suoi Stati Generali della gastronomia Italiana, non ne fornisce alcuna menzione. Ma a partire della belle époque il vento cambia con decisione, prova ne sia lo ieratico “Cannelloni! Cannelloni! Cannelloni!” che Gabriele d’Annunzio – per combinazione sempre dal suolo bresciano del Vittoriale – verga in un carteggio indirizzato alla propria cuoca personale, ilarmente soprannominata Suor Intingola. La susseguente apoteosi è storia assai recente.

Questa ricostruzione parrebbe nondimeno messa in discussione da un passaggio della ponderosa enciclopedia della pasta redatta da Oretta Zanini de Vita – edita in Italia da ERI-RAI e ripresa in inglese dall’University of California Press. L’autrice, passando in rassegna le minestre asciutte citate nel cinquecentesco trattato di scalcheria del ferrarese Giovan Battista Rossetti, tra i macaroni all’urbinata ed i gnocchetti di Genova ritiene di dover censire anche i canellini bergamaschi. E nell’Oxford companion to food il serioso storico della gastronomia Alan Davidson sembra darle eco sostenendo – non senza una certa dose di audacia – che i cannellini siano semplicemente dei cannelloni in miniatura. Vuoi mai che anche in quest’occorrenza, come presumibilmente avvenuto per il casoncello (AdG maggio 2015), i cucinieri bresciani si siano lasciati precorrere di qualche secolo dai loro colleghi bergamaschi?

Ad onor del vero, non va taciuto che nel vernacolo ottocentesco della Toscana la voce cannelloni designasse quelli che altrove erano chiamati maccheroni, e non si può certo escludere che anche il suo diminutivo, di cui non è comunque pervenuta alcuna attestazione, fosse in qualche modo entrato nell’uso corrente. Ciò non toglie che i ben più antichi canellini bergamaschi del Rossetti, serviti all’epilogo di un banchetto che Alfonso I d’Este offrì in onore della consorte Lucrezia de’ Medici e del padre di questa Cosimo I di Toscana, altro non fossero che i confetti alla cannella, noti anche come cinnamomi (AdG novembre 2014), per i quali la nostra città godeva di lustro planetario nel XVI secolo.

Pur con l’indulgenza dovuta in ragione dell’innegabile assonanza, desta non poca sorpresa che in popolari testi di gastronomia dei dolciumi possano essere scambiati per una fantomatica portata di pasta, per soprammercato recata in tavola al momento del dessert. La topica giunge comunque a conforto dei paladini della tradizione culinaria bresciana: per una volta un primato della Leonessa, ancorché conseguito per mano di un cuoco forestiero, non pare destinato ad essere riveduto a beneficio degli invisi cugini d’oltre Oglio.