Sul lago Garda è l’ora di Fish & Chef: sei cene d’autore con i prodotti del territorio

fish & chef

I grandi prodotti del Lago di Garda incontrano celebri nomi della cucina italiana contemporanea. Dal pesce d’acqua dolce alla garronese veneta, dai vini delle denominazioni del Custoza e della Valtènesi all’olio extravergine d’oliva Dop del Garda: dal 23 al 28 aprile le eccellenze del Lago torneranno ad essere le protagoniste di Fish&Chef, la rassegna ideata Leandro Luppi ed Elvira Trimeloni, che nel 2017 ha raggiunto l’ottava edizione.

Cinque gli chef cui quest’anno è stata lanciata la sfida di raccontare e valorizzare i prodotti enogastronomici del Lago attraverso un menù degustazione servito in altrettante cene in alcuni dei più esclusivi hotel sulle tre sponde del Garda.

Si comincia domenica 23 aprile con Paolo Trippini del Ristorante Trippini, ospite dell’Hotel Bellevue San Lorenzo di Malcesine, per poi spostarsi sulla riva lombarda lunedì 24 aprile, dove al Grand Hotel Fasano di Gardone Riviera arriverà Silvio Battistoni del Ristorante Colonne. Martedì 25 aprile sarà la volta di Vinod Sookar di Al Fornello da Ricci, ospite dell’Aqualux Hotel spa e Suite di Bardolino, seguito da Andrea Tonola del Ristorante Lanterna Verde, che mercoledì 26 aprile animerà le cucine dell’Hotel Lido Palace di Riva del Garda e da Paolo Donei di Malga Panna, che giovedì 27 aprile si esibirà al Palazzo Arzaga di Calvagese della Riviera.

Il gran finale nella serata di venerdì 28 aprile, quando all’Hotel Regina Adelaide di Garda si terrà la cena realizzata a otto mani da quattro chef del Dream Team del Garda: Leandro Luppi del ristorante Vecchia Malcesine di Malcesine; Stefano Baiocco, chef del ristorante di Villa Feltrinelli di Gargnano; Andrea Costantini del Ristorante Regio Patio di Garda e Matteo Felter del Ristorante Fagiano di Gardone Riviera.

La particolarità dell’evento è anche nel servizio in sala. Per ogni serata uno chef del Dream Team del Garda girerà tra i tavoli raccontando ai convitati i piatti ed i vini scelti in abbinamento a ciascuna portata. La figura del maître di sala tornerà così in primo piano accanto a quella dello chef e, soprattutto, in questo modo verrà sancito il legame che unisce a doppio filo gli chef del Garda ai loro colleghi da tutta Italia. Se a questi ultimi spetterà il compito di interpretare e rileggere con una nuova chiave i prodotti tipici del territorio gardesano, ai primi verrà affidato il compito di raccontare al pubblico i menù proposti. Le novità presentate in anteprima durante le serate sono, infatti, piatti nati dalla commistione della materia prima locale con le diverse esperienze portate dai loro colleghi.

Il costo della cene è di 80 euro. Le prenotazioni per le cene e i pernottamenti devono essere effettuate direttamente negli alberghi.




Olio d’oliva, ma come si fa a capire quando è buono?

olio oliva - generica

È su tutte le nostre tavole, ma siamo in grado di stabilire se un olio d’oliva è buono o scadente? E, non meno importante, lo conserviamo nel modo giusto? Perché la dicitura “olio extravergine di oliva” da sola non garantisce che siamo di fronte a un olio di qualità.

Marco Antonucci - olio (1)
Marco Antonucci

Con l’aiuto di Marco Antonucci, da molti anni impegnato a livello internazionale nella diffusione della cultura dell’extravergine e dell’analisi sensoriale attraverso seminari, corsi, incontri, guide, articoli e pubblicazioni di carattere sia divulgativo che universitario, abbiamo realizzato un vademecum fatto di piccoli trucchi che vi aiuteranno a riconoscere un olio buono da uno che non lo è. E a conservarlo in modo corretto. Tanto per iniziare, sfatiamo subito una convinzione diffusa: il colore non è importante.

Leggere con attenzione l’etichetta

Il primo consiglio è leggere bene l’etichetta. Più informazioni sono riportate, più chiare sono, e più possiamo fidarci del prodotto. L’indicazione Igp o Dop, che garantisce che l’olio è di una determinata area, e il marchio di consorzi locali possono essere buoni indici di qualità, oltre a tutte le indicazioni di legge.

È importante verificare anche la provenienza delle olive: non c’è una regione di provenienza migliore dell’altra, ma esistono tecniche virtuose di gestione dell’oliveto, raccolta, trasformazione e conservazione che permettono di avere un olio di qualità. Se le olive sono lavorate in frantoio aziendale, ad esempio, è una garanzia in più (il frantoio aziendale consente la lavorazione delle olive dopo poche ore dalla raccolta, conferendo agli oli alti valori nutrizionali). Altre informazioni importanti sono i dati del confezionatore (se non è lo stesso produttore), il numero del lotto (che facilita la rintracciabilità), il contenuto in acido oleico, di polifenoli, di vitamina A, D ed E. La trasparenza informativa tra produttore e consumatore è un elemento decisivo nel mercato di oggi. Il consiglio di Coldiretti è di guardare anche la data di scadenza e preferire l’extravergine nuovo guardando l’annata di produzione che molti indicano volontariamente in etichetta.

«Da qualche anno c’è scritto se l’olio è comunitario o non comunitario – dice Antonucci -. L’indicazione da cercare è “prodotto e confezionato da”. È questa “e” a fare la differenza. Anche la scritta “olio italiano al 100%” va benissimo ed è garanzia di qualità. Al contrario, la scritta “olio proveniente da Comunità europea” deve far pensare che l’olio può essere spagnolo o greco. Se è riportato anche l’anno di raccolta è un altro segno di qualità. Se non c’è scritto, è facile che nella bottiglia siano presenti anche oli di altri anni». «Il colore, invece, non va considerato – aggiunge – non dà né gusto né profumo».

olive - generica 2
Il profumo deve ricordare l’oliva

Quello che leggiamo in etichetta non basta a garantire la qualità. È importante anche valutare la componente olfattiva. L’olio deve avere un profumo che ricorda l’oliva, perché alla fine non è altro che una spremuta di olive (in gergo si dice che l’olio deve avere un “fruttato maggiore di zero”). Sembra una banalità scriverlo, però è utile e da tenere sempre a mente. Se profuma di erba appena tagliata, di pomodoro, carciofo, mela o mandorla, siamo in presenza di un buon prodotto.

Deve avere un gusto amaro e piccante

«L’olio è come il vino, per capire se è buono va assaggiato – spiega Antonucci -. Se all’assaggio si nota una sensazione di amaro in bocca, leggermente tendente al piccante in gola, allora l’olio è buono». Amaro e piccante, insieme al fruttato, sono i tre pregi che un buon olio extravergine deve avere e garantiscono anche le proprietà salutistiche del prodotto: alcuni composti nobili dell’olio come l’oleuropeina e l’oleocantale (l’uno antinfiammatorio, l’altro antiossidante potentissimo) garantiscono la loro presenza nel prodotto proprio attraverso il gusto, il primo di amaro e il secondo di piccante. Per assaporare bene l’olio lo si tiene su palato e lingua almeno 20 secondi, quindi si deglutisce.

olio oliva - bottiglietta paneNon deve essere rancido né acido

Uno dei difetti più comuni dell’olio è il “rancido”, dovuto all’invecchiamento dell’olio che è causato dalla luce, dal calore o dall’ossidazione (come sapore e odore assomiglia al grasso del prosciutto crudo lasciato una giornata al caldo a contatto con l’aria). «Per bene che lo si conservi, a un certo punto muore, come il burro – spiega Antonucci -. Dipende da come è conservato, ma in generale la durata media di un olio è un paio di anni».

Un altro difetto è la fermentazione. «Le olive si raccolgono la mattina e si portano al frantoio il pomeriggio. Se si lascia passare più tempo e le olive vengono ammassate in ambienti poco aerati e umidi, fermentano. In questo caso l’olio assume un leggero odore di aceto». In generale, se si percepiscono odori che richiamano verdure o frutti passati o peggio ancora l’odore della salamoia o di rancido, è segno che il prodotto è scadente e forse non è nemmeno extravergine.

Non deve avere il fondo

«Un terzo difetto che può avere l’olio è di presentare il fondo. «Come per il vino, anche per l’olio, la bottiglia non deve avere il fondo. Se l’olio è novello va bene, ma va consumato subito. In generale però è sempre bene filtrare l’olio ed evitare di acquistare oli che presentano uno strato sul fondo della bottiglia», consiglia Antonucci.

Non può costare meno di 12 euro

«Il detto “costa poco, vale poco” nel caso dell’olio d’oliva va tenuto sempre a mente. Bisogna diffidare degli oli a prezzi bassi. Un buon olio extravergine di oliva, lavorato con metodi artigianali e di qualità, deve avere un costo minimo di 12 euro al litro. Se il prezzo è più basso, quasi di sicuro la sua qualità non è eccellente ed è composto da un mix di oli provenienti da Paesi europei ed extra-europei, non soltanto da olio extravergine di provenienza italiana. La cosa migliore è acquistare l’olio direttamente dal produttore, sia per risparmiare accorciando la filiera, sia per avere la possibilità di assaggiare il prodotto prima dell’acquisto e per verificare personalmente come avviene la produzione».

Va conservato come il vino

Una volta acquistato un buon olio extravergine, è importante conservarlo nel modo corretto. «L’olio è più delicato del vino. La prima accortezza è evitare di sottoporlo a temperature elevate e dividere la damigiana in tante bottiglie. Se lo acquisto in Puglia in damigiane e lo metto nel baule dell’auto a una temperatura di 40 gradi e poi, arrivato a casa, lo ripongo in cantina lo uccido». Anche la conservazione in casa richiede alcune attenzioni. «Molti conservano male l’olio – avverte Antonucci -. La bottiglia deve essere riposta lontano dai fornelli e al buio, a una temperatura tra gli 11 e i 16 gradi, altrimenti si guasta. Inoltre quando si apre una bottiglia bisogna richiuderla subito, cosa che non si fa di solito. A differenza del vino, infatti, l’olio non ha conservanti quindi se si lascia aperto si ossida. Infine, quando la bottiglia è finita la si deve buttare perché sulle pareti si forma dell’olio ossidato». «Se si conserva l’olio come il vino non si hanno problemi» garantisce l’esperto.




L’inno alla “ciccia” del macellaio-poeta

Dario Cecchini
Dario Cecchini

In tempi in cui della carne si preferisce avere la visione più distante possibile dall’animale – in forma di fettine o arrosti, belli e pronti da mettere in padella – Dario Cecchini, il macellaio di Panzano in Chianti che ha reso il suo negozio una meta turistica internazionale, fa l’esatto contrario e trasforma in uno show (riuscitissimo!) niente meno che il sezionamento e il taglio di una mezzena di manzo.

È stato lui l’ospite della cena degli auguri dell’Associazione cuochi bergamaschi, che nell’occasione lo ha nominato socio onorario.

Gesti sicuri, parlata schietta e i versi di Dante a dire che dentro le vene di questo artigiano, erede di una tradizione nella macelleria lunga 250 anni, scorre anche il gusto per la poesia. «L’animale bisogna trattarlo il meglio possibile, dargli cibo buono, una vita lunga e una morte dignitosa, più compassionevole possibile. E per rendergli il giusto onore va usato tutto, dal naso alla coda, perché se la qualità c’è, è dappertutto». È il primo caposaldo del Cecchini-pensiero.

Il secondo, e conseguente, è l’elogio delle parti meno nobili. «La prima ricetta dell’Artusi è il brodo, che, guarda caso, si fa con le ossa, non con il filetto». E che dire della pancia del manzo? «Oggi ci si fanno gli hamburger, ma a me sembra sprecata – evidenzia -, prima ci si facevano bolliti eccezionali».

Sarà che è stato tirato su con gli “scarti” della macelleria di famiglia. «Da piccolo pensavo che la mucca avesse 5 teste, 20 zampe e 4 code – ricorda -. Le bistecche erano per i clienti e alla nonna portavano da cucinare tutto ciò che in bottega non era richiesto. La mia “prima volta” con la bistecca è stata al compimento dei 18 anni: è stato meraviglioso, ma è stato meraviglioso anche tutto quanto avevo mangiato fino ad allora, grazie alla sapienza in cucina della nonna».

Natale del cuoco 2016 -premiazione cecchiniIl giusto incentivo ai cuochi in sala a trasformare con passione e arte anche le parti più difficili. «Anche la gente, che ha sempre visto il manzo come un oggetto misterioso, sta cominciando a capire che la carne non deve essere per forza magra», rassicura Cecchini, che intanto svela un segreto: «Il taglio migliore, quello che i macellai non vendono mai ma che tengono come ricompensa per la famiglia è il “ragno”, un pezzettino brutto e un po’ grasso, con delle nervature a mo’ di ragnatela, da cui il nome». Dalla coscia, farcita di midollo e insaporita con sale e aromi, ha invece ricavato il pezzo forte di Natale della sua macelleria, il brasato al midollo.

Quanto alla bistecca, le regole sono poche ma tassative. «Deve essere alta troppo, grande troppo e bella troppo. Sotto i quattro centimetri è carpaccio – sentenzia – . Va cotta sulla brace otto minuti da un lato, otto dall’altro e otto per in piedi e mangiata nella maniera più primitiva possibile, portando in tavola solo sale e olio».

Con buona pace della fettina.




Enrico Bertolino: «Se v’invito a cena non chiedetemi cosa si mangia»

Enrico Bertolino è comico, conduttore televisivo, cabarettista ed esperto di comunicazione (è laureato in Economia alla Bocconi ed è manager nelle risorse umane). Da 30 anni è uno dei protagonisti dell’umorismo italiano. Il 31 dicembre si esibirà al Teatro Creberg di Bergamo nello spettacolo “Buon 2042! La festa di Capodanno”, un monologo sul meglio e il peggio dell’anno appena trascorso. Qui ci racconta il suo amore per il cibo fatto a mano, la sua curiosità per le cucine etniche e la sua amicizia con gli chef Berton e Oldani.

Che rapporto ha con il cibo?

«Di sudditanza psicologica, sono sempre in lotta con i regimi alimentari. Mi piace mangiare bene, le cose buone, anche sperimentare le cucine etniche».

Trattoria o ristorante stellato?

«Entrambi. Non amo il ristorante stellato perché è stellato ma quando ha una cucina curiosa. Come quella di Oldani e Berton, che sono amici e con i quali facciamo anche iniziative di solidarietà. In queste occasioni faccio l’assistente di cucina. E a Bergamo mi piace molto Da Vittorio anche perché lo conoscevo, non sono mai rimasto deluso dai suoi ravioli. Ma non disdegno la trattoria. Nella zona dove abito a Milano ne stanno aprendo diverse. Quando posso, le sperimento».

Dolce o salato?

«Adesso salato. Prima molto dolce».

Cosa non può mancare nella sua dispensa?

«L’amore per come si fanno le cose, le pietanze fatte a mano. Ora limito il sale e mi piace mettere lo zenzero, lo scalogno, i condimenti nuovi. Con l’età si diventa saggi».

Ai fornelli, cuoco esperto o piccolo disastro?

«Ai fornelli sono più bravi i ragazzi della scuola di Oldani. Ma a casa quando posso cucino. La nostra è una famiglia italo-brasiliana, mia figlia ama i piatti brasiliani».

Qual è il suo piatto preferito?

«Il vitello tonnato, è una combinazione irresistibile per me ed è un piatto che cucinava mia mamma. Ora che non cucina più glielo prepariamo noi. In generale mi piacciono i piatti tradizionali ma anche la cucina etnica. Ad esempio il churrasco. Deluderò qualcuno, ma sono tutto tranne che vegano».

Cosa mangia dopo uno spettacolo?

«Un primo o un secondo e poi chiudo con la sambuca. Sono entrato nel tunnel della sambuca. Prima di uno spettacolo invece non mangio mai, devo stare leggero. Un tempo si mangiava molto. Addirittura si facevano le tournée per poter andare a mangiare, nelle Marche ricordo dei ristoranti molto buoni. Adesso dopo cena è molto difficile trovare una cucina aperta, c’è poca cultura del dopo spettacolo. Possiamo contare su qualche ristoratore disponibile che tiene aperto, sono serate che non dimentichiamo».

La sua cena più bizzarra.

«È quella che non ho ancora fatto. Anche se Oldani mi ha stimolato molto con la sua cipolla caramellata. Sono rimasto dieci minuti a guardarla. Da allora non rifiuto più gli abbinamenti insoliti. Per me bizzarro è mangiare i prodotti del posto, la filiera corta, l’amatriciana ad Amatrice, in Sicilia i piatti siciliani. Credo che bisogna adattarsi».

Chi inviterebbe a cena a casa sua e perché?

«Persone accomodanti, come il sindaco di Milano Sala, che è un amico. Non apprezzo quelli che chiedono “cosa c’è da mangiare stasera?”. Mangi quel che c’è e apri la tua testa all’innovazione».

Vino o birra?

«In Brasile la birra, il vino non è competitivo ed è molto caro. Altrimenti vino. Sono stato di recente in un paesino in Francia a un mercatino. Abbiamo comprato olive farcite in tutti i modi e vino francese. Di più non si poteva chiedere».




Pizza perfetta in dieci mosse

original_impasto-per-pizza-10x7

Se c’è un piatto che piace tutte le latitudini e a tutte le età, è la pizza. Alta o sottile, condita solo con pomodoro e basilico o arricchita con salumi, pesce, formaggi o verdure, non ha confini né di cultura né di scelte alimentari ed è il simbolo per eccellenza del made in Italy in tavola. Con le sue fette gustose è il piatto dell’amicizia a tavola, ma anche una ricetta economica e che permette di sbizzarrirsi nella farcitura perché si possono impiegare quasi tutti i prodotti conservati in frigorifero. Non ultimo, ha il benestare dei nutrizionisti che ci concedono di gustarla una volta (ma anche due) a settimana.

Tutti, chi più chi meno di frequente, la cuciniamo, ma siamo sicuri di farla nel modo giusto? La ricetta è facile, ma sbagliare è un attimo. La pizza perfetta deve essere fragrante e croccante all’inizio, non deve fare resistenza alla masticabilità e deve dare la sensazione che si sciolga in bocca. Invece capita che spesso sia gommosa, troppo asciutta, secca e bianca o al contrario troppo umida.

Abbiamo stilato un vademecum fatto di piccoli trucchi e gesti esperti che vi consentiranno di scongiurare questi risultati e di ottenere una pizza al top, meritevole dei complimenti di parenti e amici. Alcuni li abbiamo “rubati” a due esperti di casa nostra: Tiziano Casillo, uno dei maestri pizzaioli più autorevoli ed apprezzati, e Ivan Morosini, panificatore, docente e vincitore di concorsi internazionali.

Tiziano Casillo
Tiziano Casillo

Ivan Morosini
Ivan Morosini

1 Scegliere la farina col giusto valore proteico

L’errore più comune che si fa è quello di sbagliare farina. Se non si sceglie quella più appropriata, il risultato rischia di essere pessimo. Con una farina troppo “morbida” l’impasto si bucherà, con una troppo forte la pizza risulterà gommosa e poco digeribile. Come scegliere tra le tante che si trovano nei lunghi scaffali dei supermercati?

«Per scegliere in modo corretto bisogna controllare sulla tabella nutrizionale della confezione la quantità di proteine – spiega Casillo -, è la forza della farina a determinare la bontà della pizza. Il valore proteico va da 7-8% fino al 12-13%. Nello scegliere la farina dobbiamo pensare al tipo di lievitazione che vogliamo fare perché ogni farina richiede un suo metodo di lavorazione e specifici tempi di lievitazione. Ad esempio, per fare una buona pizza, in modo veloce, è indicata una farina con contenuto di proteine tra l’8 e il 10%. Se invece si ha tempo per fare una lievitazione più lunga, si possono scegliere farine con proteine dal 10% in su».

Negli ultimi anni tra i panificatori e i pizzaioli si è diffusa la tendenza ad usare farine meno raffinate. Anche il consumo casalingo ha seguito questa strada. E ha fatto bene. «È diventata un po’ una moda – dice Morosini – ma è una moda positiva. Le farine più grezze sono più ricche di sali minerali, hanno un valore nutrizionale più alto e hanno una lievitazione più facile rispetto a quelle doppio zero. Inoltre a livello di sapore hanno qualcosa in più». Via libera quindi a farine integrali, di segale e a base di grano saraceno. La scelta qui dipende solo dal gusto: per chi desidera una pizza dal sapore spiccato è consigliata la farina di grano saraceno, chi invece vuole un gusto diverso dal solito può optare per quella di segale.

Per tutti il consiglio dell’esperto è comunque di miscelare le farine: «Io consiglio di utilizzare il 20% di farina alternativa – integrale, segale o grano saraceno – e il resto di farina 00». Ma se si vuole un gusto più ruvido, si può fare anche metà e metà. Con una attenzione: più la farina è integrale più lunghi sono i tempi di lievitazione e leggermente più lunghi i tempi di cottura.

2 Usare il lievito madre naturale

Il consiglio degli esperti è di usare il lievito madre naturale perché permette di realizzare una pizza più leggera, digeribile e dal gusto più intero. Richiede una lievitazione lunga, ma garantisce un prodotto organoletticamente più ricco, completo e sano. In alternativa, va bene il lievito di birra fresco in panetti che si trova nei supermercati.
Per aumentare il sapore e dare più consistenza all’impasto si può aggiungere del sale iodato. Attenzione, però: il sale non va mischiato con il lievito, altrimenti rovinerà l’effetto del lievito. Lievito e sale vanno sciolti in acqua in due recipienti diversi e poi uniti alla farina.

impasto-pizza-16x253 Preparare l’impasto la sera prima

La lievitazione è un passaggio fondamentale che determina la consistenza della pizza: se la lievitazione è eccessiva la pizza risulterà asciutta, secca e bianca, se al contrario la lievitazione è insufficiente, la pizza risulterà troppo umida. Per avere un buon risultato, con una farina dal valore proteico tra l’8 e il 10%, bisogna usare un panetto di lievito fresco di 25 grammi e lasciare lievitare l’impasto per due ore a una temperatura dai 25 ai 30° senza sbalzi (con farine più forti il tempo di lievitazione si allunga). Il consiglio però è di preparare l’impasto la sera prima e lasciarlo lievitare una notte intera in frigorifero. L’impasto raddoppierà di volume e la pizza risulterà più soffice e digeribile. Attenzione, in questo caso basta mezzo cubetto di lievito fresco.

4 Fare il doppio impasto

In fase si lievitazione un segreto che fa la differenza è il doppio impasto: si impasta una prima volta dopo la composizione quindi si fa riposare due-tre ore per far lavorare il lievito. Dopo quel tempo si rovescia, si rimpasta e si lascia riposare per altre sei-otto ore. Questo secondo riposo garantirà un impasto morbido. E per sapere quando l’impasto è lievitato si prende una pallina di impasto e la si mette in un bicchiere d’acqua. Se torna a galla vuol dire che è pronta. A questo punto si può stendere la pizza senza fatica.

5 Niente mattarello e poca manipolazione

La manualità di chi impasta è fondamentale. Ma questa si apprende con l’esperienza e non la si può insegnare su carta. Questi consigli però potranno però essere utili: mescolare bene gli ingredienti, lavorare l’impasto in modo energico, stenderlo con i polpastrelli senza usare il mattarello con gesti decisi e allargare la pasta dal centro verso l’esterno facendo una pressione dall’alto verso il basso. Attenzione a non manipolare troppo l’impasto sennò si fa troppo elastico. Se nello stendere la pasta questa tende a ritirarsi basta lasciarla così come e farla riposare qualche minuto.

6 Usare poco pomodoro, di qualità, e olio extravergine di oliva

pizza-pomodoro-10x6Il pomodoro è il primo ingrediente a farcire la pizza. Se si usano i pomodori pelati è consigliabile tagliarli a pezzetti e farli scolare molto, molto bene oppure per una salsa più liscia schiacciarli e passarli. Se si usa la polpa di pomodoro è importante sceglierla di buona qualità. Molte possono risultare troppo dolciastre. I pomodori freschi tipo ciliegino, ad esempio i Pachino, vanno usati solo d’estate quando la loro qualità e freschezza ne garantiscono un sapore gustoso. Vanno lavati, tagliati a metà e, dopo averli fatti scolare un po’, disposti sulla pizza con la pelle rivolta verso l’alto. I pomodori più indicati sono i pelati San Marzano a pezzetti.

Oltre alla scelta del pomodoro, per la buona riuscita della pizza, è importante fare attenzione alle dosi e al modo in cui viene steso: il pomodoro deve essere un velo che lascia intravedere parte della pasta, può essere condito con olio extra vergine d’oliva e un pizzico di sale prima di cospargerlo sull’impasto e va disposto al centro e sparso col dorso del cucchiaio in modo rotatorio fino a distribuire una quantità uniforme su tutta la pasta. Non va passato sui bordi, altrimenti non risulterebbero croccanti.

Una curiosità: l’olio extravergine d’oliva oltre che come condimento può essere aggiunto nella preparazione dell’impasto: infatti migliora la consistenza del glutine e, avendo un punto di fumo più alto rispetto agli altri oli, migliora la cottura e non secca la pasta, lasciandola soffice e croccante.

7 Occhio alla mozzarella

Altro ingrediente fondamentale è la mozzarella. La sua qualità è importante: non deve filare tanto e non deve essere troppo umida. Il problema è che la maggior parte tende a bagnare la pizza, soprattutto quella di bufala. Se si vuole scongiurare il rischio “annacquamento”, un’alternativa che sta prendendo piede tra gli stessi piazzaioli napoletani è utilizzare della provola o della scamorza affumicata, che rendono la pizza asciutta e molto saporita, meglio ancora se mischiata con del fior di latte. Oppure vanno bene la mozzarella fior di latte e, per andare su un prodotto locale, la mozzarella di Seriate. Se si usa mozzarella fior di latte o mozzarella di bufala è importante spezzettarla (rigorosamente con le mani, non con il coltello), strizzarla e lasciarla scolare bene in uno scolapasta per alcune ore (oppure si può tagliare la sera prima e lasciarla in frigo in uno scolapasta coperto).

Attenzione: se la mozzarella fila troppo è un segno negativo, vuol dire che per produrla è stato usato del formaggio fuso.

8 Infornare su una teglia in pietra refrattaria o in alluminio rovente

La teglia non va scelta a caso. La normale placca da forno è troppo spessa quindi non è indicata. Meglio scegliere una teglia in pietra refrattaria o in alluminio sottile (vanno bene anche le vaschette usa e getta). Se non si hanno in casa, va bene anche la placca da forno ma va scaldata molto bene prima e va usata rovente.

pizza-griglia9 Forno al massimo della temperatura

Per avere una pizza ben cotta e croccante bisogna infornare la pizza nel forno al massimo della temperatura sulla teglia rovente. La pizza perfetta ha infatti bisogno di molto calore, soprattutto dal basso. Il forno deve essere preriscaldato fino a quando non raggiunge la temperatura massima. Per una riuscita perfetta, l’ideale è infornare la pizza su una pietra refrattaria dopo averla scaldata in forno per mezz’ora a 250°. In questo caso per cuocere la pizza basteranno 5 minuti.

Attenzione, scegliere la modalità statica con “calore dal basso” e disporre la pizza sul fondo del forno perché il forno ventilato rischia di seccarla.

10 Aggiungere la mozzarella e gli altri ingredienti in un secondo momento

L’errore più comune è farcire subito la pizza, perché in questo modo si asciuga e gli ingredienti si bruciano prima ancora di essere sfornati. Un consiglio prezioso è di infornare la pizza con il solo pomodoro. La mozzarella va aggiunta quando la cottura sta per terminare (cuoce in tre minuti). Gli altri ingredienti a seconda di quanto tempo devono cuocere: ad esempio, il prosciutto crudo va messo sempre alla fine, all’uscita dal forno (se cuoce rilascia un odore non gradevolissimo e si penalizza il sapore), patate e salsiccia richiedono 15 minuti quindi possono essere infornati subito insieme al pomodoro; melanzane e zucchine vanno messe verso la fine; la rucola va rigorosamente unita da cruda e abbondantemente sulla pizza appena sfornata. Il basilico, come il prezzemolo, vanno aggiunti solo alla fine della cottura e non durante, altrimenti perdono parte del loro profumo.

Per evitare che le foglie di basilico fresco messo sulla pizza si secchino durante la cottura, si possono immergere per un istante nell’olio. Se si sceglie di guarnire con verdure fresche, il consiglio è di tagliarle molto sottili in modo che cuociano completamente in forno con la pizza. In questo caso sono belle da vedersi se tagliate per il lungo.

pizza-21x13




Il cuoco dell’Atalanta: «Ecco cosa preparo per i nerazzurri»

atalanta-gabriele-calvi-e-la-sorella-katia
Gabriele Calvi e la sorella Katia, che segue il servizio in sala a Zingonia

Sottopiatti e bicchieri in vetro blu, posate nere, un fiocco nerazzurro a legare il tovagliolo. È la tavola del ristorante dell’Atalanta, il luogo – al centro Bortolotti di Zingonia – dove mangiano i giocatori della prima squadra, l’allenatore, lo staff ed i dirigenti e dove la società accoglie i propri ospiti. È il terreno di gioco di Gabriele Calvi, lo chef che da quattro anni a questa parte si occupa del programma alimentare dei calciatori. Di Santa Brigida, 42 anni, cuoco e ristoratore di terza generazione, è cresciuto nella trattoria di famiglia ad Averara per poi collezionare, sin da giovanissimo, esperienze in giro per l’Italia. Con la sorella Katia ha gestito negli anni Duemila il ristorante del Casinò di San Pellegrino, dove è tornato di recente con la società Gran Kursaal 1907 (nome originario e data di nascita del casinò brembano, guarda caso, la stessa dell’Atalanta!) che cura eventi e banchetti in collaborazione con il Gruppo Percassi. Katia lo accompagna in entrambe le attività. A Zingonia è lei ad occuparsi della sala, mentre in cucina Gabriele è affiancato da Florinda Preci.

Come si diventa chef di una squadra di serie A?

«Nel mio caso lo devo alla fiducia che hanno riposto in me il presidente e la famiglia Percassi. In precedenza il servizio era affidato ad un’azienda di catering, ma c’era l’esigenza di curare direttamente ciò che mangiano i giocatori. Oggi è infatti assodato che una corretta alimentazione aiuta moltissimo a livello psicofisico e mantiene efficienti più a lungo, per gli sportivi è perciò un aspetto fondamentale di cui tenere conto».

Occorre una preparazione specifica per la sua professione?

«In realtà, non mi ero mai interessato prima di cucina sportiva. È un mondo che ho conosciuto entrandoci, studiando, seguendo corsi e provando. Nella definizione dei menù sono affiancato da un nutrizionista, dal responsabile sanitario Paolo Amaddeo e dal medico sociale Marco Bruzzone. L’obiettivo è preparare piatti che diano un contributo energetico importante, che apportino le proteine e i nutrimenti necessari con un uso mimino di materie grasse. Seguendo questi canoni prepariamo, ad esempio, una crostata con pochissimo burro nella frolla, zucchero di canna e confettura di frutta cotta a vapore, ma anche una torta di mele senza burro e plumcake con lo yogurt greco zero grassi».

Come è organizzato il lavoro?

«Il giovedì, in genere, ricevo il programma della settimana successiva e predisponiamo il menù in base agli impegni. Le proposte cambiano, infatti, se l’allenamento è al mattino o al pomeriggio. Mi occupo degli acquisti e di tutti i pranzi e della cena prima della partita. Per la colazione, dipende dall’allenatore. Gasperini, ad esempio, preferisce che i giocatori la facciano qui. In pratica, la società segue due dei tre pasti della giornata dei calciatori».

gabriele-calvi-cuoco-atalantaCosa mangiano, perciò, i nerazzurri?

«Piatti semplici ma fatti con ingredienti di prima qualità. La pasta è condita con salsa di pomodoro biologico, ragù di carni bianche, pesce spada e zucchine. Se l’allenamento è al mattino, a pranzo ci sta anche un pesto, fatto però con anacardi e basilico. Altra fonte importante di carboidrati è il riso, da quello nero a quello selvatico, dall’integrale all’arborio. Per secondo molta carne bianca e pesce, tutto cucinato espresso alla griglia e c’è sempre un buffet di verdure cotte a vapore, legumi, parmigiano reggiano, tonno, insalate fresche. Per colazione un’ottima fonte di antiossidanti sono gli estratti di frutta e verdura. Mirtilli, zenzero, sedano bianco, broccolo verde, avocado, carote, mela, ananas, uva… ogni giocatore sceglie gli abbinamenti che preferisce».

Il piatto che piace di più?

«Il risotto spacca! Mi dicono tutti che è molto buono. Lo faccio con cuore di parmigiano reggiano e brodo vegetale».

A tavola spesso si festeggia o ci si tira su di morale. Funziona così anche dopo una vittoria o una sconfitta?

«No, il menù non cambia a seconda dei risultati, semmai con le stagioni. Il momento del pranzo è vissuto semplicemente come una parte del programma di lavoro quotidiano».

Gli allenatori vogliono dire la loro sui pasti?

«Non tanto sul menù, ma su tempi e orari sì».

Chi è il più buongustaio tra i tecnici che ha conosciuto?

«Edy Reja è un grande amante della cucina. Una volta ha portato qui in sede lo stellato Ernesto Iaccarino del Don Alfonso: gli ho preparato i casoncelli fatti a mano secondo la ricetta di mia nonna. Reja era anche contento se gli trovavo i funghi. Pure Gasperini gradisce la buona tavola, soprattutto il pesce».

Tra i giocatori c’è qualcuno con il pallino della cucina?

«Gomez ha fatto anche un corso e, sì, ogni tanto qualcuno mi chiede qualche ricetta o consiglio. Più che altro, però, sono molto bravi nel seguire anche nel privato le indicazioni alimentari studiate per loro».

Il prepartita ha un menù speciale?

«La cena della vigilia è sempre la stessa: risotto alla parmigiana, coscia di pollo al forno con purè di patate fresche. Invece, prima della gara c’è chi vuole solo carboidrati e chi preferisce del prosciutto crudo magro o della bresaola».

Certo che non c’è molto spazio per la creatività…

«Quella la posso sfogare al Casinò di San Pellegrino, qui dobbiamo preparare piatti che facciano correre i calciatori. La mia idea di cucina è comunque improntata alla semplicità, ai sapori che ho incontrato lavorando in varie regioni d’Italia. In fondo, anche uno spaghetto al pomodoro, se fatto con materie prime di qualità, rispettandole il più possibile, non è niente male».

gabriele-calvi-cuoco-atalanta-divisaC’è un piatto porta fortuna?

«Un piatto no, ma tanti rituali. Dai pantaloni che indosso a come inforno le torte e i plumcake…».

… Leggermente tifoso?

«Sinceramente prima di approdare all’Atalanta avevo perso la passione per il calcio. Oggi invece conosco i ragazzi che scendono in campo e sento le partite tantissimo, al punto che non riesco a seguirle allo stadio o in diretta alla tv».

Il pasto da ricordare?

«Il cestino dopo il due a zero, gol di Gomez e Denis, sul campo della Roma nella scorsa stagione. Al termine della partita i giocatori mangiano perché hanno speso tutte le energie. Lo fanno appena rientrano negli spogliatoi e anche più tardi con panini ed altri alimenti che chiamiamo cestino. La trasferta era stata impegnativa e la vittoria bellissima, ecco, in quell’occasione non sono mai stato così contento di distribuire i cestini!».

Visto il buon momento della squadra, qualcuno le avrà chiesto se dipende anche da ciò che mette nel piatto…

«A mo’ di battuta è una considerazione che alcuni amici fanno, ma ovviamente non lo si può stabilire. Una cosa però ci riconoscono alcuni ragazzi: “Ci date serenità”, dicono a me e Katia, ed è molto gratificante».




Cuochi bergamaschi, la cena di Natale si fa show

La cucina si fa show e la cena di Natale dell’Associazione cuochi bergamaschi si adegua.

dario-cecchini-macellaio
Dario Cecchini

L’evento tradizionale per lo scambio degli auguri in vista delle Feste tra le “berrette bianche” cambia scenario e impostazione. Si svolge in un autosalone, si anima di isole tematiche con le eccellenze del territorio e come guest star non ha il cabarettista di turno ma un esperto a tema, il famoso macellaio toscano Dario Cecchini che alla sapienza nella dimostrazione del taglio delle carni unisce le capacità di coinvolgimento di un vero performer.

L’appuntamento è martedì 22 novembre (il giusto anticipo prima che chef e ristoratori si tuffino nei preparativi per le festività) nella sede di Autotorino, a Curno in via Bergamo 66, a partire dalle 19.30. Alla serata sarà presente anche il presidente nazionale della Federazione italiana cuochi che risponderà alle domande dei colleghi in un faccia a faccia sulle tematiche più attuali per la professione e le nuove sfide. Ad arricchire il tutto una ricca lotteria, la solidarietà di Telethon e le “Cuochine di Babbo Natale”.

Il costo di partecipazione per gli associati è di 60 euro e comprende il tesseramento per l’anno 2017, la cena, grembiule e gadget. Per gli ospiti il costo è di 40 euro. Sono a disposizione 350 posti. Per informazioni e prenotazioni 0363 326970 (Roberta).




La famiglia Cerea si racconta e cucina da Coin

 

famiglia-cerea-2

Ebbene sì, può succedere anche questo. Entrare da Coin, tappa fissa dello shopping in città, e trovare una famiglia di ristoratori stellati che si racconta e cucina. Per promuovere l’ingresso del marchio di arredamento e accessori Cargo Etc. nello store di via Zambonate, venerdì 21 ottobre alle 18.30 è in programma “Storie di Gusto e di Passione”, uno show cooking a cura dei fratelli Cerea, del ristorante Da Vittorio di Brusaporto, tre stelle Michelin.

Introdurrà l’esperienza di gusto una conversazione tra Paolo Marchi, ideatore e curatore di Identità Golose, e i fratelli Cerea con la mamma Bruna: filo conduttore la storia di una famiglia che in 50 di attività è diventata marchio di eccellenza nel mondo della ristorazione e dell’accoglienza, con il proprio stile culinario basato sulla massima valorizzazione di materie prime di qualità assoluta in armonica composizione.

Ad accogliere tutti coloro che interverranno saranno gli studenti dell’Istituto Professionale di Stato “Alfredo Sonzogni” di Nembro che affiancheranno gli chef nella preparazione e si occuperanno del servizio dei piatti. Per il brindisi, sempre servito dai ragazzi della scuola, verrà offerto Prosecco di Treviso Doc Isolaprimo.

Articolato in sette eventi lungo la penisola, il progetto Storie di Gusto e di Passione vuole offrire al pubblico l’istantanea di un’Italia che si rinnova di giorno in giorno sulla via delle esperienze a tavola, con alcuni fra i più interessanti interpreti del panorama gastronomico italiano.




Nuove aperture a Bergamo. «Dopo principesse e cucine stellate, ecco la mia Osteria»

Guido Gherardi e Tommaso Spagnolo
Guido Gherardi e Tommaso Spagnolo

Nato sulle ceneri del ristorante Al Pitentino, che a sua volta aveva rimpiazzato lo storico indirizzo cinese del Bambù, lo scorso mese ha inaugurato, a due passi dal Palasport cittadino, un nuovo locale da tenere sott’occhio. Si chiama N.O.I, con un acronimo che, secondo il volere dei due proprietari, cela la filosofia di una Nuova Osteria Italiana, ma, in qualche modo, anche la volontà da parte della coppia di voler presentare una cucina personale e libera da schemi, dettata dal mood del momento e dal piacere di stare a tavola senza eccessive complicazioni intellettuali da dover soddisfare.

Eppure, a incuriosire sono proprio le vicende professionali messe in fila nel recente passato dal cuoco ventinovenne Tommaso Spagnolo, che in quest’avventura ha coinvolto il quasi coetaneo Guido Gherardi (30 anni, anche lui bergamasco), esperto di ospitalità e gestore, in passato, di un bed&breakfast a Bergamo. La passione per la cucina, da parte di Spagnolo, ha radici lontane nel tempo, ma non è legata alla storia di una famiglia di ristoratori. «Tutto è nato perché poco più di una decina di anni fa mi divertivo a cucinare per gli amici – ricorda oggi sorridendo – e proprio da quelle serate è nata l’idea di farla diventare una vera e propria professione. La prima esperienza significativa è stata da Frosio, ad Almé, ma poi sono passato anche da Il Saraceno a Cavernago e alla Cantalupa, dai Cerea, mentre iniziavo a frequentare i corsi della Scuola gastronomica a Colorno. In seguito, dopo aver conosciuto un po’ della cucina d’eccellenza che si poteva avvicinare in provincia di Bergamo, ho pensato che valeva la pena di fare esperienze in giro per l’Italia e all’estero. Prima sono stato dalla grande Valeria Piccini, a Montemerano, alla corte di una donna sanguigna dalla quale ho imparato soprattutto il valore della tradizione e della terra. E dalla quale mi diverto a tornare quasi ogni anno per assaggiare i suoi piatti e riprovare quelle sensazioni. Poi, si è presentata l’occasione di svolgere la mansione di cuoco privato per Marie Chantal Miller, la principessa della corona di Grecia e la moglie di Paolo di Grecia. E questa è stata un’esperienza decisamente unica, con base nel quartiere di Chelsea a Londra, ma sempre in giro per il mondo, con molti viaggi a spezzare la monotonia, tra Bahamas e Gstaad, tra Vip, politici attori e teste coronate. Come quella volta che ho preparato i gamberi in tempura per Uma Thurman».

Tra sfizi concessi solo agli ultraricchi e una vita da girovago però il cuoco bergamasco ben presto si rende conto che gli manca la tensione di una cucina vera: «Fare il cuoco di famiglia può essere molto divertente, perché a quei livelli non ti manca nulla. E tutto ti viene concesso tra mille stravaganze e nessun limite di spesa. Però va detto che manca l’atmosfera, manca la sensazione di far parte di una vera brigata. Così ho deciso dopo un anno di cambiare, pur fermandomi sempre a Londra, ma al Dinner, da Heston Blumenthal, per assaporare l’energia pulsante di una grande cucina stellata e di uno dei migliori ristoranti della lista dei 50 Best Restaurants of the World. Anche qui sono rimasto per dodici mesi prima di andare a New York da Daniel Humm al celebre Eleven Park Madison, come chef di partita alle carni e al pesce. Quest’ultima rimane la più recente tappa lavorativa, anche perché sapevo che nel mio destino prima o poi ci sarebbe stato il ritorno a Bergamo, ma è stata anche una delle più significative. Mi viene in mente, tanto per dire, dell’incontro con Ferran Adrià, il mito della cucina dei giorni nostri».

ristorante-noi-bergamo-3 ristorante-noi-bergamo-1

A Bergamo, invece, Tommaso Spagnolo si presenta con uno stile che solo a tratti mostra delle sue scorribande negli stellati. In realtà c’è una forte attenzione nella scelta della materia prima (in parte anche locale) più che in quella delle tecniche di cottura o nell’estetica del piatto capaci di sbalordire. «Ora che finalmente ho il mio ristorante – rivela con schiettezza il cuoco – vedo il lavoro come puro divertimento, non certo come strumento per arrivare a dei riconoscimenti da parte di guide e di addetti ai lavori. La mia idea è quella di una cucina molto semplice, quasi convenzionale, con una spesa accessibile per il cliente e che rimane vicina più o meno ai 50 euro. In fin dei conti, vorrei mettere al servizio di un’osteria contemporanea i frutti delle esperienze maturate, ma senza eccessi e sensazionalismi. Certo, in futuro voglio fare anche un po’ di ricerca nel piatto, ma non va dimenticato che il ristorante N.O.I è ancora giovane, ha appena aperto e vuole sempre dare certezze alla sua clientela, senza voler essere arrogante o pretenzioso. Non si può certo paragonare alle cucine che ho visitato in passato. A Londra, per dire, c’è sempre una competizione incredibile, anche interna al ristorante, tra chi lavora, per emergere e farsi valere. Perché parliamo di brigate con trenta persone che lavorano a stretto contatto ogni giorno. Qui invece, per i quaranta coperti che offriamo mi accontento di poco, almeno per ora. Mi basta un aiuto cuoco in cucina e un lavapiatti. In qualche modo l’Osteria moderna è anche un’idea presa in prestito da altri cuochi italiani, come Scabin e Oldani. O perfino stranieri, come nel caso di Inaki Aizpitarte con il suo bistrò parigino».

Il menù al Noi cambia molto spesso, quasi giornalmente per alcuni piatti, ed è una scelta dettata da esigenze di food cost e da quello di buono che offre il mercato del fresco. In questi giorni capita di trovare le Mezze maniche di grano duro al ragù di cortile con funghi porcini, la Guancetta di maiale iberico con senape, salsa verde e gnocchetti, oppure la Vellutata di zucchine e mentuccia con ricotta profumata al limone o le Lumache, tra Bergamo e la Borgogna. Piatti che, oltretutto, qui si possono abbinare anche ai cocktail, come ormai accade spesso nei ristoranti alla moda.

ristorante-noi-bergamo-2Ristorante N.O.I

via Pitentino, 6
Bergamo
Tel. 035.237750
www.NOI-restaurant.it



Patata di Martinengo, festa nei locali e in piazza

È la tempo di festa per la Patata di Martinengo. Dopo la biciclettata “Natura e Gusto”, che ha dato il “la” alle iniziative con un’escursione alla scoperta del territorio e la visita ad un’azienda agricola, il programma prosegue nei ristoranti fino a domenica 18 settembre, quando andrà in scena il gran finale in piazza.

Sono cinque le insegne nelle quali per tutta la settimana – e a richiesta anche durante tutto il periodo autunnale – si può gustare lo speciale menù a prezzo fisso con protagonista la famosa patata locale, varietà a pasta bianca dalle pregiate qualità gastronomiche, riconosciute anche da Luigi Veronelli e protette dalla De.Co. la Denominazione Comunale.

I ristoranti sono: Al Martinenghì, Agriturismo Il Campo Rosso, Caffè Centrale, 3 Lanterne e Trattoria al Tiro. Ognuno ha messo a punto una proposta capace di valorizzare al meglio le caratteristiche del prodotto, con ricette classiche – come gli gnocchi, i tortini, i purè, le torte salate – e stuzzicanti variazioni sul tema, dai muffin salati e dolci al salame di cioccolato con patate e caffè, fino alla pizza (con mozzarella, julienne di patate di Martinengo, rucola con tartufo di Norcia).

Domenica 18, dalle 9 alle 18, la giornata conclusiva con una serie di eventi nel centro storico. Ci saranno la promozione, l’esposizione e la vendita della patate e degli altri prodotti tipici, locali e De. Co, la mostra di antichi attrezzi del mondo contadino, la visita guidata ai luoghi e ai monumenti della città (alle ore 15), la sfilata storica nel borgo a cura del Gruppo Folcloristico Bartolomeo Colleoni (alle 16), per finire (ore 17.30)  con la degustazione di piatti preparati con patate di Martinengo.

La rassegna è organizzata dal Comune di Martinengo.

patata-martinengo-ristoranti-e-menu-2016