Pubblici esercizi e home restaurant, obblighi a confronto

home restaurantPoiché propone un servizio di somministrazione nei confronti di un pubblico, l’home restaurant, secondo la Fipe, non può essere esercitato in luoghi privati e dovrebbe essere sottoposto ai medesimi obblighi dei pubblici esercizi.

Per dare un’idea delle norme di legge e dei requisiti a cui è assoggettata la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, soprattutto alcoliche, la Federazione ha stilato un elenco, che diventa, di conseguenza, quello delle violazioni imputate agli home restaurant.

La serie conta 22 voci, ma non esaurisce, precisa la Fipe, l’intera gamma delle prescrizioni: somministrazione di cibi e bevande anche alcoliche senza autorizzazione; comunicazione al Questore, in caso di circoli; licenza Utf per prodotti alcolici; mancato accertamento della sorvegliabilità dei locali (di competenza della autorità di Pubblica Sicurezza per quelli posti a livello superiore a quello stradale); violazione delle disposizioni urbanistiche e sulla destinazione di uso degli edifici; assenza di certificazione dei requisiti professionali e morali del titolare; somministrazione di alimenti e bevande senza comunicazione alla autorità sanitaria; assenza piano Haccp; certificazione formazione dipendenti in materia igienico sanitaria; nomina responsabile Haccp ed attestato del relativo corso; inidoneità sanitaria attrezzature; formazione sanitaria addetti; iscrizione Cciaa; iscrizione Inps titolare; eventuale presenza lavoratori in nero; rispetto del divieto di fumare; tabelle alcolemiche in caso di chiusura dopo le ore 24; etilometro a disposizione dei clienti in caso di chiusura dopo le ore 24; indicazione allergeni presenti nei prodotti somministrati; abbonamento speciale Rai per tv o altro apparecchio diffusione musica; versamenti diritti di autore e connessi Siae ed Scf; tracciabilità e rintracciabilità alimenti; sicurezza sul lavoro; corresponsione tassa sui rifiuti a livello di privato e non di pubblico esercizio.




L’home restaurant si fa largo anche a Bergamo. «Ma servono regole»

immagini fornite da WelcHome Restaurant

 

Ormai da anni la sharing economy sta entrando nella quotidianità di sempre più persone. È una tendenza che coinvolge molti settori e in grado di offrire diverse tipologie di servizi. A volte è il prezzo del servizio stesso, altre volte invece è proprio l’originalità della proposta ad attirare chi si approccia a questo mondo da fruitore. La sharing economy si sta sempre più affermando come un “nuovo modo” di usare, di consumare, di operare. Un modo molto vicino ai recenti stili di vita, che utilizza gli strumenti delle nuove generazioni, diretto e facilmente comprensibile, immediatamente fruibile, per l’appunto… social!

Anche nel mondo del cibo qualcosa è cambiato. Il cibo e tutto quello che ruota attorno al mondo dei fornelli è sempre più social, sempre più ricercato e condiviso. È cambiato l’approccio nei confronti dello stesso, è cambiato il modo in cui si consuma. Il buon cibo è diventato interesse di molti e, probabilmente, prima di questi ultimi anni, tra le cose più fotografate e celebrate. Il bisogno di condividere, l’essere tornati a dare questo valore simbolico al cibo, probabilmente ha stimolato la diffusione e la ricerca di questo tipo di fruizione. Ecco che case private diventano Home Restaurant, luoghi in cui consumare informalmente del cibo preparato dai proprietari, in compagnia di persone sconosciute, oppure con gli stessi “homer”. La logica è quella di condividere le spese, consumando cibo preparato ad hoc, in compagnia e in totale condivisione e conoscenza reciproca. Il metodo è molto simile a quello di un’informale cena con amici, compresa la caratteristica di occasionalità dell’attività. Ma dal momento che l’home restaurant si rivolge a persone spesso non conosciute, non sono ben chiari e compresi quali possano essere i limiti di questa attività, per evitare di concorrere in maniera sleale a quelle attività di somministrazione, in primis i ristoranti, spesso schiacciati tra burocrazia, normative da rispettare e fisco. L’home restaurant manca completamente di regolamento anche per quel che riguarda la sicurezza alimentare, dal momento che non sono semplici cene tra amici, ma vi è la chiara possibilità di creare dei veri e propri micro business.

A Chiuduno l’iniziativa di tre amici: «Per noi è divertimento e condivisione»

WelcHome Restaurant - Chiuduno (4)Anche in Bergamasca si possono trovare diverse occasioni per una cena in casa. A Chiuduno, da un piccolo gruppo di amici è nato WelcHome Restaurant (welchomerestaurant.wordpress.com), che non manca di considerare i problemi che questo buco legislativo crea a tutti coloro che volessero intraprendere questa attività, ma anche a chi svolge la tradizionale attività ristorativa. «Io – dice Giancarlo, uno dei tre fondatori – ho tentato più volte di capire come praticare questa attività, ho cercato di informarmi, ma ovviamente le istituzioni non mi sanno dare delle risposte perché in effetti delle risposte non ci sono». L’home restaurant è una pratica che per la legislazione italiana non esiste, nonostante ormai da tempo si sia diffusa e stia diventando sempre più popolare. «Sono molti quelli che mi contattano chiedendo come si fa – racconta ancora Giancarlo – questo vuol dire che c’è interesse a riguardo».

Per i tre ragazzi di Chiuduno questa è una grande passione che non fa pensare ad alcuna intenzione di fare business eludendo la normativa. Infatti organizzano, quando riescono, al massimo una cena al mese e tutto è pubblicizzato sul loro sito web e sulla loro pagina Facebook. Giancarlo, Barbara e Daniele hanno altre occupazioni: commerciante il primo, educatrice all’asilo nido la seconda e operaio il terzo. «Ci conosciamo da alcuni anni – racconta Barbara – e abbiamo sempre fatto delle cene con gli amici, siamo un numeroso gruppo. Come in tutti i gruppi, noi tre eravamo quelli appassionati di cibo e cucina e…è andata a finire che cucinavamo sempre noi». Ma anche la location non è banale, «io abito qui e questo spazio l’ho sempre messo a disposizione dei miei amici – spiega ancora Giancarlo -. I cuochi c’erano, lo spazio anche, ecco che amici, amici di amici, hanno iniziato a chiederci di organizzare delle cene, proponendocele anche loro stessi: dal compleanno da festeggiare tra amici a quello con i parenti, alle cene a tema per passare una serata in compagnia, etc. e il gioco è fatto. Barbara aveva sentito parlare di questa nuova cosa, gli home restaurant e quindi perché non provarci? Noi organizziamo anche una festa in paese e ci piace, appunto, darci da fare: goliardicamente abbiamo iniziato a pensare ad alcune proposte e siamo entrati a far parte di alcune piattaforme di social eating».

Da qui la ricerca delle materie prime a km zero, quasi tutti gli ingredienti (nei limiti del possibile) utilizzati sono prodotti a Chiuduno e dintorni. «Il tutto è più uno sfizio nostro – racconta ancora Barbara –, gli amici ci facevano i complimenti e, attraverso la condivisione con estranei, ci siamo messi alla prova. Ovviamente i menù e le cene rispecchiano molto i nostri gusti: cuciniamo quello che ci piace, dal filetto di maiale in crosta di pancetta con i profumi, alle pere caramellate al miele, fino alle tagliatelle al cacao fatte in casa». «È una vera esperienza sociale – conclude Giancarlo –, per noi divertimento e condivisione. Non è un ristorante e non deve esserlo. A noi piacerebbe che questa pratica venisse considerata, riconosciuta e di conseguenza normata e tutelata». Dalla sua definizione e regolamentazione probabilmente inizia la tutela stessa anche di questa pratica che, non avendo definizione, potrebbe essere facilmente attaccata nonché snaturata per fini diversi da quelli per cui è nata.

La Fipe: «Attività fuori da ogni controllo, un’escalation da contrastare»

Chi non vede di buon occhio gli home restaurant sono i ristoratori e le associazioni di categoria che, per tutelare le attività, chiedono a gran voce che si legiferi in merito. La Fipe, Federazione Italiana Pubblici Esercizi, lo scorso 19 gennaio ha presentato in Parlamento un’audizione chiedendo così la regolamentazione degli home restaurant. L’associazione denuncia «l’enorme diffusione, anche attraverso canali on line e social network» di queste attività e il rischio di costruire un canale alternativo a quello della ristorazione, ma completamente fuori controllo. L’allarme è per la possibilità che l’abusivismo finisca col prevalere sull’attività occasionale e saltuaria, generando così dei meccanismi di concorrenza sleale. «Infatti, si è notato – riferisce l’associazione – che mentre nel passato esistevano pochi operatori che effettuavano tale attività nell’ambito della cerchia delle proprie conoscenze, ora l’abusivismo si è “ingegnerizzato” con la nascita di associazioni o enti similari che raggruppano tali operatori».

Non solo, l’attività di somministrazione delle bevande è soggetta a numerosi e complessi adempimenti, a tutela della salute pubblica, ma anche ad esempio per il controllo rispetto alla somministrazione di bevande alcoliche. Per questo motivo, ad ora, la Fipe chiede che le autorità contrastino gli home restaurant, dal momento che in molti casi sono diventate delle vere e proprie attività, completamente fuori controllo. In realtà, il Ministero dello Sviluppo Economico ha fornito una parziale risposta all’assenza di regolamenti, con la risoluzione n. 50481 del 2015, affermando che la disciplina commerciale applicabile agli home restaurant è quelle relativa alle attività di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico sia per quanto riguarda il possesso dei requisiti necessari (morali e professionali) sia per l’obbligo di presentazione di una Scia per l’inizio dell’attività, ma nulla di più.

Senza dimenticare la tutela dei consumatori…

Per concludere, entrambe le parti ritengono fondamentale un regolamento. È necessario al fine di tutelare innanzitutto il consumatore per quanto riguarda la sicurezza alimentare, dal momento che le tossinfezioni alimentari sono di natura prevalentemente domestica. Inoltre risulta necessario al fine di tutelare le attività ristorative, sottoposte a rigidi controlli e norme severe, onere che ha un peso economico e non solo. Infine, una precisa regolamentazione risulta necessaria al fine di tutelare anche chi si dedica con passione e dedizione a questa attività occasionale, avendo come fine ultimo il creare una vera esperienza sociale e conviviale, in cerchie più o meno ristrette, con una vera condivisione di esperienze, tempo e spese, senza che diventi un business, rimanendo così un’attività profondamente diversa da quella ristorativa. Probabilmente qualsiasi divieto potrebbe stimolare la diffusione segreta degli home restaurant, completamente fuori controllo, con la minaccia di seri rischi in materia di sicurezza alimentare pubblica, nonché di concorrenza sleale a chi, giorno dopo giorno, si adopera per il rispetto delle normative in materia fiscale e di sicurezza alimentare.

 

 




Bambini al ristorante, «il divieto è legittimo»

cibo-bambini-coloriL’ultimo in ordine di tempo a salire alla ribalta della cronaca è stato un ristoratore romano – titolare de “La Fraschetta del Pesce” in zona Casalbertone – che con un eloquente cartello all’entrata dichiara: «A causa di episodi spiacevoli dovuti alla mancanza di educazione, in questo locale non è gradita la presenza di bambini minori di 5 anni, nonché l’ingresso di passeggini e/o seggioloni per motivi di spazio».

Il tema dei bambini al ristorante e delle limitazioni al loro accesso si ripresenta ciclicamente (qualche anno fa, ad esempio, la discussione era partita per il divieto ai pargoli dopo le 21 di una pizzeria nel bresciano) e così la Fipe, la Federazione dei pubblici esercizi del sistema Confcommercio, ha colto l’occasione per fare il punto sulla possibilità di un titolare di pubblico esercizio di selezionare la clientela.

La fonte normativa è nell’articolo 187 del regolamento di esecuzione del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, che risale al 1940 e che recita: «Salvo quanto dispongono gli articoli 689 e 691 del codice penale (divieto di servire alcoolici a minori ed ubriachi), gli esercenti non possono, senza legittimo motivo, rifiutare le prestazioni a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo».

«Per fornire una interpretazione esatta occorre identificare i legittimi motivi che possono consentire ad un esercente di rifiutare la prestazione – spiega la Federazione -. Sicuramente non possono essere addotte motivazioni di carattere sessuale, politico, religioso e razziale, in quanto in contrasto con disposizioni di ordine pubblico. Ciò premesso, si deve ritenere come, in assenza di una specifica giurisprudenza, eventuali limitazioni (ad esempio sul modo di vestire) debbano essere, in ogni caso, oggettive e predeterminate e portate preventivamente a conoscenza della clientela».

Sono pertanto ritenute legittime prescrizioni concernenti l’abbigliamento (richiesta di giacca e cravatta, ad esempio) o l’obbligo di prenotazione del tavolo.

Per quanto riguarda l’accesso di minori (ferme restando le limitazioni connesse ad una eventuale attività in contrasto con la loro presenza ed imposte per legge o per atto della Pubblica Amministrazione, come topless bar, lap dance), la Federazione ritiene «legittimo l’operato di chi nel proprio locale limita l’accesso di bambini che si possono, con tutte le probabilità, rivelare fastidiosi ed indisponenti per il resto della clientela anch’essa meritevole di tutela, sulla base dell’assioma per il quale il proprio diritto finisce dove inizia quello dell’altro». «Obiettivamente esistono, inoltre, motivazioni connesse alla sicurezza degli stessi bambini che consigliano di evitarne la presenza in locali dove vi sono apparecchiature o altre occasioni di pericolo che sfuggono alla sorveglianza dei genitori».




Osteria della Dogana, il sogno realizzato di Leo

Fa un po’ fatica Leonard Vjerdha (63 anni), Leo per gli amici, a mascherare il proprio orgoglio, la soddisfazione per aver realizzato un’impresa così importante, forse un sogno, come l’aver dato una sede tutta nuova all’Osteria della Dogana, a Bergamo, in via Rovelli 28. Lui che nel 1992 era sbarcato in Puglia proveniente da Scutari, in Albania, con moglie e due figli in cerca di fortuna, probabilmente l’ha trovata. «Ci siamo dati da fare e non è stato facile – racconta Leo – ma aiutandoci l’un l’altro dal dicembre 2014 siamo nel nostro nuovo locale, che ci sta già dando delle buone soddisfazioni. Funziona infatti da mattina a sera, cominciando dalle colazioni proseguendo con il pranzo sino agli aperitivi ed infine la cena. Non abbiamo giorno di chiusura».

I primi passi nel mondo della ristorazione la famiglia Vjerdha li ha compiuti proprio in Puglia dove, tra l’altro, il figlio Elton (35 anni), attuale chef, ha frequentato l’Istituto Alberghiero a Otranto. Oltre che da Elton, Leo è stato affiancato dalla moglie Zhlieta (58 anni) e dall’altro figlio Mario (32 anni) che si occupa della sala. Più recentemente si sono aggiunte le due nuore Julita, moglie di Elton, e Fationa moglie di Mario.

«Siamo arrivati a Bergamo nel 2002 – prosegue il suo racconto Leonard – ed abbiamo preso in gestione l’Osteria della Dogana che era al civico numero 30, sempre di via Rovelli: ci siamo spostati di un solo numero, che in realtà vuol dire circa duecento metri in linea d’aria tra il nuovo ed il vecchio locale». «Già quando abbiano cominciato noi – ricorda – il lavoro indotto dagli uffici della Dogana stava diminuendo perché la sede era stata spostata. Abbiamo sempre avuto però un buon nucleo di clienti ed è stato proprio per mantenerli e servirli meglio che abbiamo deciso di creare questa nuova struttura. Si trattava soprattutto di una questione di spazio, per il servizio ma anche per la cucina, per poter lavorare meglio».

osteria della dogana 3In effetti la nuova Osteria è proprio un bel locale, arredato con gusto e soluzioni di design, molto lineare per un totale di 55 coperti ed una zona bar-tabacchi abbastanza defilata che non interferisce con il lavoro di ristorazione.

«Per quanto riguarda la cucina – dice Elton che ai fornelli è aiutato dalla mamma – lavoriamo in maniera tradizionale con un occhio all’evolversi del gusto. L’attenzione maggiore è riservata al pesce, soprattutto spada e tonno che abbiamo sempre freschi. Non dobbiamo dimenticare che abbiamo clienti che mangiano da noi da dieci, dodici anni, significa di certo che c’è un buon rapporto ma anche che occorre sempre introdurre delle novità. Altro aspetto essenziale – aggiunge – è la qualità delle materie prime». La proposta è varia. «Per 15 euro – spiega – abbiamo il menù fisso alla domenica a mezzogiorno col quale cerchiamo di coinvolgere le famiglie, vogliamo farci conoscere il più possibile, alla sera invece si mangia alla carta. La pizza c’è sempre come il pane che il babbo sforna ogni giorno, anche i dolci sono fatti in casa».

Sbirciando nel menù alla carta abbiamo avuto la conferma che è il pesce il protagonista. Ai piatti di terra viene riservato uno spazio abbastanza contenuto, quasi l’indispensabile si potrebbe dire, con i salumi, la parmigiana di melanzane, gli immancabili casoncelli alla bergamasca e poi i tagli nobili della carne come filetto, tagliata e controfiletto, per fare qualche esempio. Sul mare si spazia invece da un grande antipasto con ostriche, alle linguine con piovra e gamberetti tra i primi fino allo spada alla livornese tra i secondi piatti. Questo in estrema sintesi. L’obiettivo è comunque quello di dare della buona qualità ad un giusto prezzo. Per un pranzo di tre portate e quindi antipasto, primo e secondo, il prezzo si aggira sui 35 euro vini esclusi.

Provato per voi/ Il menù a prezzo fisso

L’attenzione in più sta nel fatto che il menù del pranzo a prezzo fisso viene pubblicato quotidianamente sulla pagina Facebook del locale. I clienti, quindi, possono orientarsi in anticipo sulle loro scelte e, perché no, pregustare la propria pausa. All’Osteria della Dogana il menù fisso – che comprende primo, secondo piatto, contorno, vino, acqua e caffè – costa dieci euro, nove se si sceglie solo un piatto sia che si tratti del primo o del secondo. Ogni giorno c’è almeno un piatto a base di pesce. C’è anche il menù pizza che però a mezzogiorno non è particolarmente gettonato.

I classici, e cioè gli spaghetti al pomodoro, aglio e olio o al pesto, non mancano mai come la braciola o la bistecca ai ferri tra i secondi. In aggiunta abbiamo trovato in occasione della nostra visita: gnocchi speck e brie, paccheri con bocconcini di tonno, filetto di maiale al pepe verde, scaloppine alla valdostana e roast beef. Insalata mista, patatine fritte e cornetti al burro la scelta per quanto riguarda i contorni. Sfogliando i menù dei giorni precedenti abbiamo trovato un risotto con carciofi e taleggio e un carpaccio di tonno rosso con misticanza di verdure e arancia che non avremmo certo disdegnato.

Abbiamo scelto gli gnocchi speck e brie e le scaloppine alla valdostana con contorno di cornetti al burro. Precisione e servizio inappuntabile, cucina decisamente semplice e gradevole per un più che corretto rapporto qualità-prezzo.

Osteria della Dogana - esternoOsteria della Dogana
via Pietro Rovelli, 28
Bergamo
tel. 035 239483
sempre aperto



Dal risotto alla polenta, la cucina lombarda che piace all’estero

Non solo spaghetti con le polpette e fettuccine Alfredo. Complice il diffondersi della cultura gastronomica, della curiosità culinaria e dei viaggi, la cucina italiana all’estero oggi riesce anche ad esprimersi in maniera autentica, facendo spazio ai prodotti e ai piatti regionali.

La Camera di commercio di Milano ha scelto di verificare l’impronta della buona tavola lombarda sul portale Italian Quality Experience promosso insieme a Unioncamere e alle altre Camere di commercio (www.italianqualityexperience.it). È emerso che sono 123 i ristoranti italiani (tra singole attività e catene) che all’estero offrono cucina regionale di tradizione o ispirazione lombarda certificati dalle Camere di commercio e che sono presenti prevalentemente in Europa (28%), Asia (27%) e Centro e Sud America (21%).

Si scopre anche che il simbolo del mangiare lombardo nei ristoranti esteri è il risotto, protagonista in un menù su tre, seguito dalla costoletta alla milanese (15%), dalle zuppe e i minestroni (15%) e dal vitello tonnato (11%). Diffusi anche la polenta e l’ossobuco alla milanese (un menù su dieci li offre). Ci sono inoltre gnocco fritto alla polenta con funghi freschi o gorgonzola, ossobuco, risotto alla milanese con midollo, tagliere di formaggi tipici lombardi, casonsei e zuppa bresciani, costoletta alla milanese, cannelloni di zucca alla cremonese, pulaster, chips di polenta fritta.

Proposte rispettose della tradizione e degli ingredienti tipici si traducono in promozione dell’agroalimentare e in un marketing diffuso. I prodotti partono soprattutto da Milano (oltre un miliardo), Bergamo (470 milioni) e Mantova (420). Carne, frutta, formaggi e prodotti farinacei vanno sulle tavole francesi, il pesce in Grecia, gli oli e i vini negli Stati Uniti, le granaglie e gli amidi in Germania. In crescita il Regno Unito, soprattutto per pane e prodotti da forno (+22%) e per vini e bevande (+11%) così come gli Stati Uniti (+14%), il Giappone per gli oli (+29,5%) e la Svizzera per le carni (+9,8%) e i pesci (+7,6%), secondo quanto emerge da un’elaborazione della Camera di commercio di Milano su dati Istat nei primi nove mesi del 2015 e 2014.




Niente bistrot alla stazione di Paratico, ma potrebbe arrivare un negozio

stazione

Non ci sarà nessun bistrot alla stazione di Paratico. Almeno per il momento. Il bando pubblicato dall’Amministrazione per la gestione dell’ex fabbricato viaggiatori è andato deserto.

Alla gara indetta dal Comune per trasformare la stazione in un piccolo bistrot o una piccola attività commerciale non si è presentato nessun imprenditore, società o associazione. E non è servito posticipare la chiusura della gara dal 23 novembre al 21 dicembre. Le condizioni che il Comune aveva posto erano del resto impegnative: l’eventuale affittuario avrebbe dovuto investire 360.000 euro per riqualificare la struttura (disposta su tre piani, con una superficie di oltre 360 metri quadrati) e pagare un canone di affitto annuo di 6.000 euro per i primi nove anni, con un aumento fino a 36.000 euro a partire dal decimo anno.

Ora l’Amministrazione, che si è data come impegno quello di vivacizzare la zona della stazione, dovrà decidere se riaprire il bando o, in caso sia possibile, assegnare la gestione dello stabile con trattativa privata. Intanto sembra ci sia un interessamento per trasformare il vecchio fabbricato viaggiatori in un negozio di prodotti della Franciacorta.




Il cameriere è grasso? Al ristorante si mangia e beve di più

I camerieri “in carne” possono ispirare a mangiare e a bere di più. Lo rileva uno studio pubblicato su Environment and Behavior dai ricercatori del Food and Brand Lab della Cornell University (nello stato di New York), un’istituzione che si occupa di psicologia dei consumi in campo alimentare. In particolare lo studio – rilanciato da Adnkronos -, condotto su 497 commensali in 60 ristoranti statunitensi, dimostra che chi ordina la cena da un cameriere in sovrappeso ha 4 volte di più la probabilità di ordinare un dessert e ordina il 17% in più di alcolici.

«Nessuno va ad un ristorante per iniziare una dieta. Per questo siamo estremamente sensibili ai segnali che ci danno la licenza ad ordinare e a mangiare quello che vogliamo», dice Tim Doering, ricercatore presso la Cornell Food and Brand Lab e autore principale dello studio.

Ad influenzare le nostre scelte a tavola non è solo il peso del cameriere. Giocano, infatti, un ruolo chiave anche l’illuminazione, la musica, e il posto a sedere. Per non cedere alla tentazione, dunque, i ricercatori consigliano di arrivare al ristorante già con le idee chiare, decidendo a priori cosa mangiare se l’antipasto o il dessert.




Fine d’anno, la presidente Frosio “fa le carte” alla ristorazione bergamasca

L’anno dell’Expo ha portato movimento nei ristoranti bergamaschi, che ora vivono il periodo delle festività confidando nei segnali di fiducia e ripresa dei consumi rilevati a livello nazionale. Ma la sfida resta grande e complessa, perché la concorrenza aumenta, il prezzo continua ad essere il principale fattore che determina la scelta e i canali “alternativi”, ultimo quello dell’home restaurant, sparigliano ulteriormente le carte in tavola.

Petronilla FrosioLa fine dell’anno è tempo di banchetti e brindisi, ma anche di bilanci e programmi per il futuro e per tracciarli ci siamo rivolti a Petronilla Frosio, presidente dei ristoratori Ascom.

«In effetti l’estate è stata buona – afferma -, ci sono stati più turisti, prima di tutto per il clima, ma anche per la crisi di alcune mete, come Tunisia e Marocco, e per l’Expo che di gente ne ha fatta girare, anche nelle Valli, ad esempio gli emigrati che hanno preso l’occasione dell’evento milanese per riaprire le seconde case».

E ai bergamaschi è tornata la voglia di andare al ristorante?

«Credo che non l’abbiano mai persa, solo che è in atto una rivoluzione, l’offerta si è ampliata e diversificata moltissimo. Pensiamo al proliferare di locali giapponesi, chi avrebbe pensato solo cinque o sei anni fa che il sushi sarebbe diventato un classico per le uscite dei giovani? Il fatto è che in famiglia non si cucina quasi più e le nuove generazioni non conoscono i sapori della tradizione, non sono legate ai ricordi. In più viaggiano e sono aperte al mondo, sono perciò molto inclini ai gusti nuovi e alle nuove cucine».

Cosa possono fare, allora, i locali “classici”?

«Specializzarsi, ritagliarsi un proprio spazio, una propria identità, non c’è dubbio. Ristoranti fotocopia che hanno di tutto si fanno concorrenza l’un l’altro, mentre se ci si differenzia si può arrivare a condividere la clientela. Ci può essere il locale dove trovare un buon brasato, del buon pesce e questi diventano motivi di richiamo, invece oggi il cliente finisce per scegliere in base alla vicinanza o al parcheggio…».

Quale può essere una specializzazione da coltivare?

«Sono sempre più convinta che a Bergamo, mi riferisco alla città, manchi una vera cucina del territorio. Che non significa rifare i piatti del passato, ma interpretarli nuovamente, tanto più che oggi l’agricoltura ci sta consegnando una nuova offerta di prodotti locali interessanti, dalla frutta alla verdura ai formaggi. Gli stranieri che visitano la città chiedono dove poter assaggiare cibi e sapori tipici e oggi, francamente, si fa fatica a dare indicazioni».

Cosa intende per reinterpretazione della cucina del territorio?

«Non certo attribuirsi una semplice etichetta. Significa conoscere le ricette e alleggerirle per rispondere al gusto e alle esigenze attuali, studiare i prodotti e farli diventare piatti capaci di convincere. In un’occasione è stato chiesto quale fosse la cucina bergamasca estiva. Si potrebbe rispondere che non esiste, dato che i nostri piatti tipici sono più che altro indicati per le stagioni fredde, ma nulla vieta che la si possa inventare partendo dai prodotti del territorio. Qualcuno che sta lavorando in questo senso e in modo ammirevole c’è, intendiamoci, ma per un’operazione di un certo peso, per fare in modo che ci si creda in tanti, servirebbe un’autentica “macchina da guerra”, un intervento istituzionale. Così come ci sono iniziative per promuovere l’innovazione e l’internazionalizzazione delle imprese si può lavorare su una rivalutazione della nostra cucina. Per la verità qualcosa si sta muovendo, ma è ancora un po’ presto per parlarne…».

Il prezzo influisce sempre sulle scelte dei consumatori?

«Ha sempre inciso e con la crisi è diventato un fattore ancora più determinante. I ristoratori lo sanno bene e infatti sono anni che mantengono i prezzi stabili, se li hanno addirittura abbassati. Solo che adesso sarebbe anche ora di potersi rimettere in gioco, non si può andare avanti accontentandosi di stare a galla e pagare le spese. Qui la palla passa alla politica, tutto il Paese si è incartato tra lacci, lacciuoli e incertezze che frenano lo sviluppo. Chi mai può pensare di investire oggi?»

Si dice però che la crisi sia servita a trovare nuove opportunità…

«È vero, ma la crisi è più pesante di tutte le innovazioni. Diciamo che in questo braccio di ferro ha vinto lei».

Con il suo ristorante partecipa a InGruppo, che riunisce i locali top in una proposta più accessibile, nato proprio in risposta alle difficoltà e al mutamento dei consumi…

«Credo che questo progetto e quello con proposte a 35 euro siano due delle più belle cose nate in questi anni tra i ristoratori bergamaschi. Fare gruppo è importantissimo, è occasione di incontro, scambio, confronto ed è sedendosi attorno ad un tavolo che le idee possono crescere e farsi concrete. Un conto è portare avanti qualcosa da soli, un conto è farlo in 15 o più».

Come vede il 2016 per la ristorazione?

«Il vantaggio del nostro settore è che la gente continua a mangiare e questo è un aspetto sempre e comunque positivo. Come detto, però, l’offerta aumenta e pure la concorrenza, anche quella non proprio ad armi pari come gli agriturismo e, ultimamente, persino gli home restaurant, le cene in casa di privati. Va bene le liberalizzazioni, ma forse si sta esagerando e non sempre la gente si fa delle domande su certi fenomeni. Il fatto è che la novità attira sempre, insieme al prezzo è il motore del mercato».

Oltre ai visitatori, il risultato di Expo è stato anche un nuovo modo di vedere il cibo, l’alimentazione e lo stare a tavola?

«Non lo si può dire nell’immediato, ma credo che gli effetti si vedranno nel tempo, anche solo considerando i fiumi di scolaresche che hanno invaso i padiglioni. Del resto, su temi come ambiente, cibo, spreco e sostenibilità si sta riflettendo ormai da tempo e una certa consapevolezza si fa avanti. Quanto alla ristorazione, credo che l’aspetto su cui fare sempre più attenzione sia il mangiare sano».




Ospitalità, «dieci regole per fermare il far west»

Gli imprenditori del settore alberghiero e della ristorazione serrano le fila nei confronti dei servizi scambiati tra privati – dall’alloggio alle cene – ed elaborano una posizione comune a livello europeo che individua dieci misure per rendere sostenibile e responsabile la “sharing economy” nella ricettività turistica.

Il dossier, elaborato dall’Hotrec – la Confederazione europea degli imprenditori del settore alberghiero e della ristorazione -, evidenzia che le lacune dell’attuale regolamentazione mettono a rischio la protezione della salute e della sicurezza dei consumatori e generano un’area grigia in cui prosperano i fenomeni di concorrenza sleale. Tra le questioni chiave che devono essere affrontate dalle autorità pubbliche e dalla società, spiccano la tutela della salute e della sicurezza dei consumatori, la registrazione degli alloggiati e la rilevazione delle presenze, il rispetto degli obblighi fiscali, la tutela dei diritti dei lavoratori e la qualità della vita dei cittadini.

«Spetta ora alle autorità di rendere la sharing economy un modello integrato, garantendo la salute e la sicurezza dei consumatori e il gettito fiscale, al pari di quanto fanno le imprese dell’ospitalità, che danno lavoro a 10 milioni di persone e insieme con il turismo rappresentano la terza attività economica in Europa» sottolinea Christian de Barrin, segretario generale di Hotrec.

«Stesso mercato e stesse regole, è questo il nostro slogan – afferma Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi – e la lodevole iniziativa dell’Hotrec, che abbiamo contribuito ad elaborare, va nella direzione giusta di sconfiggere il sommerso e l’abusivismo». «Insieme alle organizzazioni dei lavoratori, Federalberghi ha chiesto alle istituzioni italiane di porre un argine al far west dell’ospitalità, che genera abusi, lavoro nero, evasione fiscale e insicurezza per i clienti e per i cittadini».

«L’aumento dello spirito di iniziativa, la cosiddetta sharing economy e il ruolo di guida dei consumatori hanno occupato il centro della scena – dice Taleb Rifai, segretario generale dell’Unwto, l’Organizzazione Mondiale del Turismo -. Mentre siamo favorevoli all’innovazione e all’iniziativa privata, dobbiamo anche sottolineare la necessità di trovare soluzioni avanzate per salvaguardare i diritti dei consumatori e gli standard di qualità, garantendo nel contempo parità di condizioni per tutte le aziende».

LE DIECI MISURE PROMOSSE DALL’HOTREC

  1. istituire un registro ufficiale degli alloggi turistici offerti da privati
  2. definire procedure per l’autorizzazione all’esercizio di tali attività
  3. censire il movimento dei turisti nelle private abitazioni
  4. garantire requisiti minimi a tutela della salute e della sicurezza dei clienti
  5. rispettare la legislazione fiscale
  6. identificare i viaggiatori, nel rispetto della convenzione di Schengen
  7. tutelare i diritti dei lavoratori
  8. proteggere la qualità della vita dei vicini di casa
  9. monitorare e controllare il rispetto delle regole e l’impatto del fenomeno
  10. sanzionare la violazione delle regole



Sfida tra cuochi in Fiera, il migliore è di Osio Sopra

cadei premiazione 2L’appetito vien mangiando, si dice. E così dopo il terzo posto conquistato da vero outsider al Cuoco d’oro, giusto qualche giorno fa sul palcoscenico di Host a Milano, Simone Cadei, 36enne titolare insieme ai fratelli del ristorante Simagò di Osio Sopra, ha piazzato un altro bel colpo. Questa volta in casa, vincendo alla Fiera Campionaria la quinta edizione del Trofeo Fiorenzo Baroni, organizzato dall’Associazione cuochi Bergamaschi in ricordo del fondatore. Una sfida avvincente, che ha visto ai nastri di partenza 12 concorrenti, impegnati sul tema “La sosteniblità alimentare, ingredienti poveri per un gusto ricco” con tre ingredienti obbligatori – galletto, riso carnaroli e formaggio Branzi – e tre panieri a sorpresa diversi per ogni batteria in gara, selezione per la finale nella quale la difficoltà in più consisteva nell’obbligo di utilizzare tutti i prodotti in dotazione. Nel suo piatto Cadei ha condensato, nei 55 minuti previsti dal regolamento, un ideale menù: un antipasto di insalata di galletto su cereali con maionese al basilico, degli gnocchetti di riso con scalogno, tartufo nero e crosta di polenta e petto di galletto ripieno di pasta di salame su polentina di riso. Ha staccato, di poco, il valente 24enne bresciano Luca Piccinelli, mentre al terzo posto si è classificato il lecchese Mirko Ravasio. Quarto finalista il 23enne pavese Michele Strazzeri.

Cadei al lavorocadei piattiCadei non è un “professionista” dei concorsi, ma due risultati in pochi giorni lo autorizzano a guardare al mondo delle competizioni culinarie con un po’ di ambizione in più. «Mi sono messo in gioco perché c’è sempre da imparare – racconta -, per confrontarmi con un pubblico e, perché no, far conoscere il nostro locale che è una piccola realtà. Per chi deve anche mandare avanti un’attività non è facile trovare il tempo per prepararsi, devo ringraziare i miei fratelli, Agostino e Fabrizio, che mi danno questa possibilità. Confesso che un po’ sono stato conquistato da questo mondo, la voglia mettermi alla prova ora è sempre lì che stuzzica». Definisce la sua cucina “divertente”. «Siano tre fratelli e tutti e tre cuciniamo – spiega -, abbiamo fatto esperienze all’estero, gli incroci sono continui. Nel nostro locale si può trovare dalla zuppa thai al casoncello». La vittoria la dedica a mamma Rina, che con i suoi piatti di casa ha trasmesso la passione a tutti e tre.

Al Trofeo, ospitato nello stand della Camera di Commercio dedicato i prodotti a marchio “Bergamo Città dei Mille… sapori” hanno partecipato concorrenti provenienti da tutto il Nord Italia e persino un giapponese, prima presenza internazionale nella storia della manifestazione. Si tratta di Masato Suzuki che, a Bergamo per uno stage, ha scelto di confrontarsi a fornelli tra estetica orientale e ingredienti locali.

cadei e commis Lorenzo Mazzoleni cadei piatto finale«Siamo soddisfatti – commenta Fabrizio Camer, segretario provinciale dell’Associazione cuochi – perché quest’anno ci sono stati parecchi volti nuovi, soprattutto bergamaschi. E bergamasco è anche il vincitore, un segnale di vivacità, interesse e una conferma della qualità del settore nella nostra provincia». Camer è stato supportato nell’organizzazione da Fabio Sanga, Alessandro Pilatti e Riccardo Carnevali.

In giuria c’eravamo anche noi di Affari di Gola, tra chef di grande esperienza come il presidente Cesare Chessorti, presidente dell’Associazione cuochi di Como, e lo stellato Sergio Mauri e due bergamaschi che in fatto di competizioni sanno dire la loro, Francesco Gotti, già componente della Nazionale italiana cuochi e oggi allenatore dello Junior team, e Mirko Ronzoni, vincitore del programma tv Hell’s Kitchens, il più fotografato dai visitatori della Fiera. Commissari di gara gli impeccabili Cinzia Fumagalli e Cristian Spagnoli.

Non sono mancate le parole di incoraggiamento del presidente provinciale Roberto Benussi e regionale Carlo Cranchi e l’incontro con gli sponsor vicini al concorso e all’Associazione, per una lunga giornata tra sfrigolare di padelle, profumi, occhiate al timer, apprensione, riconoscimenti per tutti. Compresi i quattro giovani commis, Mattia Grassi, Lorenzo Mazzoleni, Oscar Crotti e Gabriele Camer.