Formidabili quegli anni. Trenta tondi tondi, dalle riunioni semiclandestine nei sottoscala del 1985 alle adunate “oceaniche” nelle piazze salviniane. Ma davvero, al di là della pur legittima autocelebrazione andata in scena nei giorni scorsi alla Fiera, la Lega di Bergamo può andar orgogliosa di questa sua ormai non più breve storia?
L’anniversario può essere utile occasione per provare a tracciare un bilancio dell’operato di un movimento che in tre decenni ha lasciato un solco profondo nella terra bergamasca. E non sempre in bene. Ma addentriamoci nell’analisi e proviamo a partire dagli aspetti positivi, limitandoci naturalmente al contesto locale. Il primo, innegabile, è la ventata di aria fresca che la Lega ha portato nella politica bergamasca. Nelle amministrazioni locali soprattutto, dopo decenni di sostanziale autocooptazione tra i soliti noti per via dell’egemonia democristiana, sono comparse figure nuove, spesso un po’ naif ma con il pregio di odorare di bucato. Hanno rotto i vecchi equilibri, tagliato le unghie agli amici degli amici, innovato nell’approccio con i cittadini. Questo in generale, naturalmente, perché accanto ad amministratori stimati ed apprezzati sono anche spuntati personaggi che hanno fatto prevalere il folklore, con trovate legate a simboli e bandiere fini a se stesse.
Quando hanno fatto prevalere l’ideologia sul pragmatismo, infatti, i leghisti bergamaschi hanno fatto flop. Emblematiche le due esperienze alla guida della Provincia. Prima Giovanni Cappelluzzo con il suo progetto della “Provincia autonoma”, poi Ettore Pirovano con la sua furia iconoclasta contro qualsiasi cosa provenisse dalle Giunte che l’avevano preceduto. Risultato? Tante energie e risorse buttate via senza portare a casa nulla, alla faccia del rinomato pragmatismo della ditta padana. Due occasioni sprecate, nella migliore delle ipotesi, per mostrare innovative capacità di governo così come decantate nella propaganda elettorale.
E nemmeno sul piano dell’esperienza romana si può dire che la rappresentanza bergamasca abbia lasciato segni tangibili. I tanti che si sono alternati in Parlamento si sono consegnati, senza colpo ferire, al ruolo ininfluente e frustrante dei peones, utili solo a pigiar bottoni, sia che si trattasse di sostenere governi sia di opporsi. Al pari in questo dei colleghi degli altri partiti, va riconosciuto, i leghisti hanno fallito nell’opera di lobbysti del territorio. Sono scivolati via senza portare a casa alcunchè di significativo. D’altra parte, chi ha avuto l’onore di entrare nella stanza dei bottoni, Roberto Calderoli, passerà alla storia come il padre di una indecente legge elettorale, oltre che come instancabile produttore di battute di dubbio gusto. Anni e anni di sostegno ai governi Berlusconi non hanno portato in Bergamasca nemmeno le briciole. Bisognerà avere il coraggio di fare un’analisi seria del lavoro svolto e tracciare un bilancio che non sia autoassolutorio.
Certo, tanto più oggi che Matteo Salvini pare aver individuato una nuova forza di penetrazione nell’elettorato non solo nordista, celebrare il raggiungimento del trentesimo compleanno è doveroso. Non è stato facile essere leghisti in certi anni lontani e nemmeno in quelli più recenti (traversìe di Bossi e delle varie trote in circolazione). Portare avanti con coerenza un credo, qualunque esso sia, è di per sé meritevole. Ma perché tutto non si riduca ad una allegra rimpatriata, ancorché colorata da una raffica di vaffa nei confronti di Matteo Renzi, sarebbe utile che chi oggi guida la Lega bergamasca, quel Daniele Belotti che forse non casualmente è tornato quasi alla casella di partenza in mancanza di alternative valide, avesse la lungimiranza di promuovere un momento di confronto senza rete e senza sconti, per ragionare sui punti di forza ma anche sui limiti di un’esperienza politica che ad oggi, lo riconoscono anche i sostenitori leghisti più fedeli, ha sicuramente promesso più di quanto abbia raccolto.