Una triste Santa Lucia per noi che abbiamo perso la fiducia

Una triste Santa Lucia per noi che abbiamo perso la fiducia

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La coda per consegnare le letterina a Santa Lucia

Quando ero giovane, e ribelle come tutti i giovani, cercavo di imitare i miti eroici che avevo imparato ad amare a scuola, tra gli amici, nelle prime esperienze politiche: Jűnger, Aragorn, Codreanu, Leonida. Disprezzavo i deboli, gli inetti, coloro che mi sembrava evitassero le sfide, limitandosi ad esistere, senza mai vivere veramente. Non comprendevo, semplicemente non ero in grado di comprendere, le ragioni di quelle debolezze, di quelle inettitudini. E’ stato solo crescendo, cominciando a conoscere, un po’ alla volta, il bruciore acre della sconfitta e l’implacabile insulto che il tempo fa al nostro corpo, beffandoci con il suo lasciarci l’anima dei vent’anni, che ho iniziato a capire. E, se, una volta, la solitudine mi sembrava la bellezza d’acciaio dell’alpinista sulla vetta più alta, oggi la solitudine mi fa sinceramente ribrezzo: anzi, mi fa paura. Perché ho finalmente compreso che la nostra comune fragilità deriva da un lutto immedicato: da un distacco mai voluto. La mia generazione è una generazione di orfani: uomini incompiuti, a metà fra una tradizione che si è sgretolata ed una rivoluzione che non si è mai realizzata. Avanguardia del niente.

I miei genitori, i miei nonni, avevano, per quanto vivessero in un universo semplificato e catechizzato dall’alto, delle granitiche certezze, che riassumerò, per dire in breve, nella formula nota: “Dio, Patria e Famiglia”. Per mio nonno, uomo del 1890, veniva certamente prima la Patria, finché, lui, socialista umanitario, sodale di Turati e della Kuliscioff, non scoprì Dio, che, negli ultimi anni della sua lunga vita, non divenne la sua priorità. Per mio padre, uomo onesto fino allo scrupolo ed in perenne contrasto con un’adolescenza piena di angoscia, che non voleva terminare, il perno di tutto fu la Famiglia, intesa come tributaria del suo lavoro indefesso e dei suoi sacrifici, più che come nido o luogo di affetti espliciti. Mia madre non fa testo: avrebbe dovuto monacarsi e, forse, solo il desiderio di maternità le ha impedito di farlo. Non conosco altre persone che abbiano letto tre volte tutti e sette i volumi della Recherche: lei è una che mette in fuga i Testimoni di Geova a colpi di citazioni bibliche. Loro, tutti loro, i miei agnati, erano ben sicuri di qualcosa: che fosse la Patria del Carso e dell’Isonzo, la Famiglia delle pubblicità dei dadi oppure il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, loro non erano orfani in questo mondo. Noi, sì. Noi tutti sì, maledizione.

Pur senza pretendere di cancellare nulla, abbiamo, un poco alla volta, sgretolato quelle pietose illusioni che ci rendevano meno estraneo l’universo: abbiamo cominciato a ridere delle bandiere e degli inni e siamo finiti ad adorare il mito del mondialismo. Abbiamo messo in soffitta superstizioni e riti e, oggi, viviamo le feste natalizie, che dovrebbero, comunque, essere feste religiose, come una gigantesca ordalia pagana: come un rito celebrato di fronte agli altari della più maialesca materialità. Abbiamo distrutto la famiglia tradizionale e siamo giunti a negare, come una tradizione malsana, perfino, la nostra umanità e il nostro sesso. Non abbiamo più niente, non sappiamo più niente. Ci dicono che così, nudi bruchi, neonati senza alcun cordone ombelicale, siamo enormemente più liberi: sarà anche così, per quanto a me non paia. Ma la vera domanda è, semmai: siamo più felici? Mi viene in mente la riuscitissima immagine di Alessandro Magno, giunto al termine del mondo, che Pascoli descrive in un noto poema conviviale: il vincitore di tutto, ora che non è rimasto più niente da conquistare, è disarmato, immobilizzato. E si domanda se non sarebbe stato meglio limitarsi a sognarle, tutte le sue vittorie: per avere più destino davanti.

Così siamo noi: oberati di immagini, di luci, di parole, che non fanno altro che darci il senso desolante dell’inutilità di tutto questo agitarsi, di questa velocità, di questa fretta di andare in nessun posto, di non arrivare mai. Così, in questa Santa Lucia tanto diversa dai tredici dicembre della mia infanzia, mi sento anch’io come Alessandro, giunto all’Oceano: non perché rivivano in me i miti della mia adolescenza, ma perché, semmai, il mito si è fatto realtà, ed ha perso tutta la sua valenza magica. Il mythos ha dovuto accettare le leggi del logos, e nessuno ci potrà restituire la gioia di credere per pura fede. Anzi, mi verrebbe da dire che quest’epoca di imbecilli in cattedra, di disonesti in pulpito, di egoisti in pubblico, ci ha reso del tutto increduli: incapaci di fidarci della gente, delle idee, delle cose. E questo, forse, è il dramma più grande di questa mia generazione orfana, questa doomed generation senza guerre e senza pace: l’aver perso la fiducia. Nel futuro come nelle parole: la fiducia negli uomini. Una volta, però, per chi perdeva la fiducia nei propri simili, esisteva un rifugio sicuro, dove consolarsi l’anima: la fiducia in Dio. E si chiamava fede. Ma quella, purtroppo, è come il coraggio: se non ce l’hai non te la puoi dare. E non c’è Santa Lucia che tenga.