La vendita di Italcementi e i campanilisti di retroguardia

La vendita di Italcementi e i campanilisti di retroguardia

 

L'impianto Italcementi di Calusco
L’impianto Italcementi di Calusco

Già prima della globalizzazione il campanilismo economico aveva cambiato dimensione. Una volta esistevano vere banche (non semplici filiali) di quartiere. C’era anche fino alla fine degli anni Sessanta una ora impensabile Cassa Popolare di Depositi e Prestiti dell’Alta città di Bergamo. Poi anche la dimensione di un singolo paese è diventato troppo piccolo. Resiste come simpatica e ancora valida eccezione che conferma la regola la Bcc di Mozzanica, ma se si amplia il discorso si vede che ci sono ormai addirittura intere province che non hanno una vera banca di “campanile”. Come a Varese, ad esempio, per responsabilità della Popolare di Bergamo che prima ha acquistato il Credito Varesino, poi ha incorporato la Comindustria e la Popolare di Luino. Si vedrà adesso come andrà a finire con Ubi, mentre già la regione inizia a diventare una dimensione minima con la prospettiva futura che anche l’Italia finirà per diventare stretta.

Le aziende sono già più avanti rispetto al processo in corso nel credito. Adesso qualcuno piange, in maniera anche poco dignitosa, la “perdita” dell’Italcementi, come già aveva fatto quando il Credito Bergamasco è stato fuso nel Banco Popolare. In un campanilismo a senso unico e dalla memoria corta aveva però osannato in precedenza quando il Creberg aveva incorporato il veneziano Banco San Marco e quando la stessa Italcementi aveva preso il controllo di Ciments Français.

Se si festeggia quando si comprano i francesi e ci si straccia le vesti quando si viene comprati dai tedeschi è perché cambia la visuale di prospettiva di uno stesso fenomeno. L’Italcementi è arrivata alle attuali dimensioni attraverso una serie di acquisizioni, prima in Lombardia, poi in Italia, infine in Europa e quindi nel mondo. Lo stesso ha fatto Heidelberg. Alla fine sono i tedeschi che comprano gli italiani (perché nonostante tutti gli eufemismi che parlano di matrimonio, questa è una acquisizione a tutti gli effetti). Avrebbe potuto anche essere viceversa – e allora ci sarebbero i commenti sulla brillante operazione di conquista – ma non lo è stato. Forse perché sono mancate le forze, più che la volontà: lo si capirà meglio probabilmente tra qualche anno. L’operazione industrialmente ci sta, considerato che in questo modo nasce il secondo gruppo cementifero europeo, dietro al risultato di un’altra aggregazione, in questo caso più alla pari, ma non del tutto, tra la svizzera Holcim e la francese Lafarge. E ci sta anche finanziariamente, perché Italcementi non viene pagata poco, anche se, in altri tempi, forse irripetibili, le sue quotazioni borsistiche erano ben superiori al prezzo dell’offerta.

Non è quindi una svendita, né un’operazione che si pone l’obiettivo di distruggere valore, nonostante sposti il baricentro dell’azienda fuori dall’Italia con possibili ripercussioni occupazionali nel quartiere generale, anche se con ogni probabilità più limitate di quanto viene temuto e nel complesso gestibili senza particolari traumi.

Il problema più ampio diventa a questo punto quello di una progressiva perdita di potere decisionale non tanto bergamasco quanto italiano all’interno delle grandi aziende. Italcementi segue Pirelli, dove prenderà il timone ChemChina. Ma è solo l’ultimo anello di una lunga catena, che comprende tra i tanti casi Merloni-Indesit, Telecom (dove da poche settimane il primo azionista è la francese Vivendi) o AnsaldoBreda. Anche se i casi sono differenti uno dall’altro, viene sfatato il mito degli anni scorsi, quando allo spostamento di produzioni fuori dall’Italia si raccontava che un conto erano le braccia e un altro era il cervello, che invece restava saldamente in patria. Dopo alcuni anni però inevitabilmente il cervello sta seguendo le braccia, perché non ha più ragione di stare staccato, in una separazione tra l’altro che facilita le successive operazioni di vendita.

Ad ogni acquisizione di un’azienda da parte di un’impresa straniera, in ogni caso parte il ritornello sull’Italia in svendita, dimenticando che questo avviene prima di tutto per l’incapacità degli italiani di tenersele. E anche se non ci si può lamentare in fondo se per acquisire le aziende italiane arrivano le classiche offerte tanto generose da non potere essere rifiutata, le continue cessioni ricordano molto la fine degli anni Sessanta, quando tanti hanno ceduto l’azienda perché poco fiduciosi sul futuro del fare impresa in Italia. E questo sarebbe più preoccupante delle vendite in sé.

Dato che si parla di globalizzazione però è bene anche avere uno sguardo globale. Nei giorni scorsi la Cgia ha diffuso dei dati dove si rileva che nel 2014 solo in Italia, Slovenia e Finlandia, su tutta l’eurozona, c’è stato un aumento degli investimenti stranieri diretti. Ma se si guarda al contributo dello stock degli investimenti diretti esteri questi risultano essere in Italia pari al 17,4% del Pil, come all’inizio della crisi, il dato più basso di tutti, con l’eccezione della Grecia (8,5%). La presenza di tante Pmi spiega parzialmente questo ritardo, ma in quest’ottica la cessione dell’Italcementi potrebbe essere solo l’inizio di un riallineamento che interesserà inevitabilmente la vendita di altre aziende. I campanilisti di retroguardia preparino i necrologi nei quali sono specializzati.